da redazione

“Anja, la segretaria di Dostoevskij” di Giuseppe Manfridi ci permette di addentrarci nel processo creativo di uno degli scrittori più importanti nella storia della letteratura; allo stesso tempo ci narra di un amore appassionato, quello tra Fëdor Michajlovič Dostoevskij e la giovane Anna Grigor’evna Snitkina, chiamata Anja. L’autore delinea le loro figure con una cura maniacale, indagandone ogni sentimento, scandagliando il loro passato, mostrando le loro cicatrici; anche i personaggi secondari sono gestiti con attenzione: è chiaro che Manfridi avesse a cuore l’obiettivo di ritrarre con realismo l’umanità del tempo, raccontando le loro verità – da Anna Nikolaevna, la madre di Anja, mostrata nel suo smarrimento per una figlia tanto giovane che le sfugge prima del previsto, all’editore Stellovskij, un uomo viscido e senza scrupoli. Perfino i personaggi che sono già deceduti quando inizia il romanzo sono evocati con delicatezza e maestria, facendo echeggiare il loro lascito tra le pagine: è ciò che accade con la figura del padre di Anja, un fantasma benefico che la spinge con la sua passione per le opere dello scrittore russo a incamminarsi verso il suo destino. Giuseppe Manfridi è un narratore di razza, e la sua è pura letteratura; ci fa immergere nelle atmosfere decadenti della Pietroburgo di fine Ottocento, e sembra quasi di avvertire i suoni che provengono dalle strade, perfino gli odori, e di scorgere le ombre che accompagnano i passanti.
«Ogni città ha la sua particolare razza di fantasmi, quelli di Pietroburgo sanno essere più vivi dei vivi. La morte transitata ne ha maturato la coscienza e li ha resi più esperti. Qui, i morti hanno una dignità particolare. E soprattutto, non se ne vanno. Restano, avidi di futuro. Non fa per loro l’accumularsi nei cimiteri in via definitiva trasformandosi in passato e basta. Tra essi, chi amava, continua ad amare, ma di più. Chi combatteva, continua a combattere, ma di più. Chi odiava insiste a odiare, ma con rinnovata intelligenza. Tutti quanti, i morti insieme ai vivi, contribuiscono al movimento collettivo. Le ombre, qui, hanno il rilievo dei corpi, e anch’esse covano le loro ambizioni e portano avanti i loro progetti».
Il fragile e tormentato Dostoevskij vive tra queste strade e di esse si ciba: nei suoi romanzi ne richiama le atmosfere e la dissolutezza dei loro abitanti, come accade ne “Il giocatore”, l’opera la cui genesi è raccontata da Manfridi, mentre ci narra di una straordinaria storia d’amore, quella tra uno scrittore di mezza età e una giovane ragazza che farà di tutto per proteggere il suo talento.
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