di Fabrizio Coscia

Nel 1981, il Don Chisciotte di Cervantes fu proibito in Cile dalla giunta militare di Pinochet. La dittatura riteneva che il libro “contenesse un’apologia della libertà individuale e un attacco contro l’autorità costituita”. Lo scrive Alberto Manguel nel suo delizioso “Una storia della lettura” (Feltrinelli). La letteratura faceva paura alle dittature si sa. Ma anche alle democrazie. Oggi, infatti, assistiamo a qualcosa di molto più dannoso della censura: Don Chisciotte è in tutte le librerie, ma chi se la sente di affrontare i due volumi di Cervantes? Gli adolescenti guardano con sospetto a tutto ciò che è «impegnativo». La letteratura, e la «cultura alta» in generale (so che questa definizione può risultare odiosa a molti, ma non ho altre definizioni a disposizione per riferirmi a un romanzo di Virginia Woolf o Malcolm Lowry, a una sinfonia di Mahler o a un quadro di Rothko) non è più considerata sovversiva, ma «noiosa», a meno che non entri nel mainstream dell’intrattenimento. Il che è decisamente peggio: ciò che è proibito, si sa, attira sempre la nostra curiosità e il nostro desiderio, a differenza di ciò che è considerato «out», «palloso», «pesante».
Nel giro di un paio di generazioni i lettori autentici non esisteranno più, o esisteranno in così pochi da essere considerati una stramba setta, o saranno una piccola ed esclusiva élite, come oggi gli studiosi di epigrammi latini. Ciò vuol dire che un intero patrimonio culturale sarà destinato a sparire, come nel rogo della biblioteca di Alessandria, e non ci sarà nessuno che vorrà tramandare a memoria i capolavori del passato per combattere un divieto, come il gruppo di transfughi di «Fahrenheit 451». Semplicemente perché non ci sarà bisogno di nessun divieto da parte dell’autorità costituita.