di Giulio Mozzi

Ma la domanda del secolo è: «Si possono usare in poesia le parole “frigorifero”, “alluce”, “resilienza”?». La prima risposta che mi viene è: «Sì, si possono usare»; ma la seconda risposta che mi viene è: «La domanda non ha senso». Sono ormai due secoli che la poesia italiana, uscita dalla gabbia petrarchesca nella quale l’aveva rinchiusa Pietro Bembo con le sue «Prose della volgar lingua» – un trattato che dettò legge dal 1525, quando fu pubblicato, fino più o meno all’altezza di Leopardi – ha cominciato a prendersi la libertà di usare più o meno tutte le parole disponibili: sia per gioco, sia in tutta serietà.
Senza andare in cerca di sperimentalismi e avanguardismi, dove giustamente si trova di tutto e di più, basta sfogliare Eugenio Montale, per esempio, per imbattersi al volo in parole come «canfora», «stracci», «ombrello», «fionda», «porcelli», «imbuto», «chiaviche», «acceleratore» e così via (tutte da «La bufera e altro»); in Andrea Zanzotto troviamo «protrusi», «paletti», «periscopio», «inghippo», «camaleontizzato», «stomacato», «suboceaniche», «maxillofacciale», tutti in una sola poesia («Periscopi», nella raccolta «Fosfeni»); o, per avvicinarci nel tempo, in Milo De Angelis (oggi settantenne) incontriamo «secchio», «poligono», «scatole», «rottami», «Eurostar», «ossatura», «rasoio», «guizzo» eccetera eccetera.
L’idea che le poesie si debbano scrivere in una sorta di «lingua della poesia» è quantomeno un’idea vecchia. La poesia è certamente una sorta di comunicazione in codice: ma se ai tempi di Dante e Petrarca era scritta in un codice pubblico, condiviso e formalizzato, nel nostro tempo (e il nostro tempo è il tempo del romanticismo, comincia con Charles Baudelaire) la poesia è scritta piuttosto in codici privati, misteriosi ed enigmatici. Quante poesie di Montale, per dire, ci sembrano alludere a eventi, a conversazioni, a persone, a incontri dei quali nulla ci è dato di sapere? (A meno di non sprofondare in quei commenti, in quelle note-fiume a piè di pagina, dove filologia e pettegolezzo inestricabilmente si intrecciano: col risultato di dire, alla fine, «Ah, ecco…», ma di perderci per strada il «Che bello!»).
Lo scopo della poesia è dire ciò che dice con la massima precisione. Il luogo comune più diffuso, invece, è che la poesia sia il luogo dell’astratto, dell’indefinito, del «vago» (in senso leopardiano); ma questo luogo comune finisce col far produrre tanta poesia priva di oggetto, imprecisa, e finalmente «vaga» (nel senso comune della parola). Quando Dante scrive:
«Tre donne intorno al cor mi son venute
e seggonsi di fore,
ché dentro siede Amore»,
qualsiasi commento vi avvisa lestamente che tanto «donne» quanto «cuore» sono parole da intendersi in senso allegorico; ma quel che fa Dante è, prima di tutto, costruirci una scena: in cui Amore sta dentro il cuore e le tre donne fanno anticamera. Ce le descrive («Ciascuna par dolente e sbigottita / come persona discacciata e stanca»), ci dice che i loro vestiti sono stracciati e lasciano intravedere le parti intime («Come Amor prima per la rotta gonna / la vide in parte che tacere è bello»): ci permette, insomma, di vedere materialmente ciò che lui ha immaginato. E per far vedere, bisogna nominare. Dare un nome alle cose. Dare un nome agli animali fu, secondo il racconto del «Genesi», la prima incombenza di Adamo: ecco, fa poesia chi, come Adamo, vive al principio di tutto, e dà il nome a tutto. Anche al frigorifero, all’alluce, e – ebbene sì, vi piaccia o no – alla resilienza.
Del linguaggio della poesia si parlerà, un bel po’ più approfonditamente di così, nel corso «Scrivere in versi», che condurrò per la Bottega di narrazione dal 25 novembre prossimo. Il programma dettagliato è qui: https://bottegadinarrazione.com/scrivere-in-versi-2/. Le iscrizioni sono aperte. Per chi si iscrive entro il 31 ottobre è previsto uno sconto.