Cultura Letteratura

Jorge Carrascosa, l’uomo che rinunciò alla gloria eterna

È una domenica e le strade sono deserte, non c’è anima viva. Si avverte, chiara, una stranissima sensazione che qualcosa di importante, importantissimo stia per accadere. Sullo sfondo rimbombano le voci, accorate di una telecronaca. A qualche chilometro, a due passi dal mare, si sta disputando una partita di calcio che tutto il mondo sta guardando in diretta televisiva e che tiene col fiato sospeso l’intera Argentina.

di Giusva Branca

È il 25 giugno del 1978, sono le 5:00 del pomeriggio, è già buio a Buenos Aires, perché sul piano climatico in Sudamerica il 25 giugno corrisponde al nostro giorno di Natale. Un uomo piccoletto, con i baffi spioventi, un po’ ingobbito, passeggia avvolto in un cappotto per le strade della Capitale. È una domenica e le strade sono deserte, non c’è anima viva. Si avverte, chiara, una stranissima sensazione che qualcosa di importante, importantissimo stia per accadere. Sullo sfondo rimbombano le voci, accorate di una telecronaca. A qualche chilometro, a due passi dal mare, si sta disputando una partita di calcio che tutto il mondo sta guardando in diretta televisiva e che tiene col fiato sospeso l’intera Argentina.

La finale dei Mondiali, Argentina-Olanda, è ai supplementari, sull’1-1 al “Monumental”, lo stadio del River Plate, a due passi dal mare e, soprattutto, a due passi dall’Esma (Escuela Superior de Mecanica de la Armada), la struttura dove si vocifera da tempo che la Giunta militare argentina, in carica dopo il Colpo di Stato del ‘76, metta in pratica tutta la sua ferocia contro coloro che non sono allineati al regime. L’uomo passeggia lentamente, sempre più incassato nelle sue spalle, passa davanti a qualche bar, butta un occhio dentro e ne intuisce subito l’atmosfera, da psicodramma collettivo.

Poi continua a passeggiare, immerso nei suoi pensieri. E non sono pensieri belli. Per nulla. Sì, perché l’uomo non è esattamente uno qualunque, nonostante il fatto che da sempre lui si vesta proprio come uno qualunque e declini ogni comportamento, atteggiamento con la sua necessità di passare inosservato. Ma non è facilissimo che Jorge Carrascosa passi inosservato. Ha 29 anni, a Ferragosto ne compirà 30 e, soprattutto, vanta 30 presenze con la maglia della nazionale argentina, la gloriosa albiceleste, della quale poco tempo prima era il Capitano. Lui lo sa bene che la storia aveva disegnato per lui ben altro affresco. Lui avrebbe dovuto essere a pochi chilometri di distanza, ma in campo, a mordere le caviglie di René Van de Kerkhof o di Johnny Rep, le stelle dell’Olanda finalista. E invece passeggia da solo, al freddo, prendendo a calci una lattina vuota.

“Etica, morale, dignità e onore sono parole sacre. Ho ancora sogni e ideali, anche se mi disillude sapere che poco è cambiato da allora. Ho sognato di cambiare il mio quartiere, il calcio, la squadra, il Paese: lottavo per queste cose, esprimevo così la mia identità”.

Mai, nemmeno per un minuto si è pentito della sua scelta, neppure una volta ha maledetto il giorno in cui ha detto al “flaco”, Luis Cesar Menotti, selezionatore della nazionale argentina e suo profondissimo estimatore, che lui, Jorge Carrascosa, origini in parte italiane, perno e capitano della albiceleste, nel pieno della sua parabola psicofisica di calciatore, no… lui no, proprio no. Lui lasciava lì e in quel momento, maglia e fascia di capitano della Nazionale. Per sempre. Quella coppa del mondo la alzerà il Capitano dell’Argentina, Daniel Passarella, ma l’uomo sa perfettamente che il disegno del destino prevedeva che la alzasse lui e che lui stesso ha sovvertito quel disegno. Ma lui quella coppa dalle mani insanguinate del generale Videla non la avrebbe presa per niente al mondo.

“El loco” lo aveva pregato, riservatamente, in tutti i modi di soprassedere, di rivedere la sua posizione. Carrascosa, a bassa voce, come era solito fare, spiegò al suo mentore che ci aveva pensato per oltre un anno, non sarebbe stato un minuto a fargli cambiare idea. Ma l’uomo andò oltre: provò a portare dalla sua parte Menotti, solleticandolo proprio sui valori condivisi, sull’orgoglio e sull’orrore che i militari stavano distribuendo a piene mani sul popolo argentino solo per soddisfare la loro sete di potere e i disegni dell’imperialismo statunitense che aveva sovvenzionato tutti i colpi di Stato militari che negli anni ’70 travolgendo le regole democratiche praticamente in tutto il Sudamerica. “El flaco” provò a ribaltare il tavolo, girò sottosopra il ragionamento del suo capitano, proponendogli il medesimo obiettivo, ma attraverso la via opposta: “Non giocheremo per quei figli di puttana che ci opprimono” – disse Menotti – “ma per dare una gioia alla nostra gente, al popolo”. “No, grazie, capo, io non me la sento. Davvero” – chiosò “El lobo”.

“Che senso ha giocare quando sai che in un modo o nell’altro ti faranno vincere?” avrebbe detto, anni dopo Jorge Carrascosa, l’uomo, spiegando la sua scelta. Intanto, mentre Daniel Passarella alza la Coppa al posto di Jorge Carrascosa, a poche centinaia di metri, tra le fredde stanze dell’Esma, si continua a morire tra atroci sofferenze. L’uomo ora è in casa, si lascia andare sulla poltrona, ripensa a quella Coppa del Mondo, al sogno della sua vita, al disegno che il destino aveva scelto per lui e che lui ha, con piena volontà, stracciato in mille pezzi, come un papelito da lanciare in aria.

Dirà, anni dopo: “Etica, morale, dignità e onore sono parole sacre. Ho ancora sogni e ideali, anche se mi disillude sapere che poco è cambiato da allora. Ho sognato di cambiare il mio quartiere, il calcio, la squadra, il Paese: lottavo per queste cose, esprimevo così la mia identità”.

Contatti

Sport Heroes di Giusva Branca

Regia Christian Maria Parisi

Produzione Teatro Primo


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