
Innanzitutto, questo non è leggere: è costruire.
Ho affrontato Come è perché un amico me lo ha regalato su consiglio del mio libraio di fiducia. La prima edizione, tra l’altro: tradotta da Franco Quadri e uscita per Einaudi nel 1965. L’ho iniziato il giorno stesso in cui l’ho ricevuto e l’ho finito nel giro di due settimane. Un tempo piuttosto lungo considerando che si tratta di circa centocinquanta pagine. Ma Come è richiede tempo: non per leggere, né per comprendere, ma perché si tratta di un tentativo di trapianto di pensiero. Nel monologo tripartito (Come è prima di Pim, Come è con Pim, Come è dopo Pim) una creatura di nome Bom, che striscia nel fango e se ne nutre, ne incontra un’altra uguale a lei: si chiama Pim. E per questo, perché esiste ed è uguale a lei, la tortura più che può, fino a che la seconda non se ne va lasciando il protagonista di nuovo solo. È la storia dell’odio, quello primordiale à la Sartre, che deriva dal non essere soli, dall’essere insieme in un mondo che vorremmo, nel profondo, tutto per noi. Ed è la storia dell’amore disperato, che deriva dall’essere purtroppo simili, terribilmente soli.
Beckett lo ha scritto in diciotto mesi. Mi sono chiesto, da aspirante scrittore, come possa configurarsi l’esperienza di scrittura di un romanzo del genere. Penso sia stato un ascolto: non il tendere l’orecchio al suono delle nostre corde più profonde; ma un orecchio esperto, quello di un accordatore che cerca scientificamente di riportare al La la corda di un pianoforte, affidandosi solo alla vibrazione intransigente del diapason. Ne risulta una melma di parole, un muco senza grammatica, senza interpunzione, un lessico ridotto alle ossa. Il libro è un organo: l’esploso dell’apparato pensante di Bom, dove si scorgono cellule specializzate che ne compongono la microarchitettura sotto forma di paragrafi brevi, di massimo dieci righe.
Non è un flusso di coscienza: quello risiede nell’inconscio e non è esatto – non tende a qualcosa di precisato. Piuttosto, è il fiume prelogico di termini da smistare, ma anche la casistica che si instaura tra la scelta di due termini simili, appartenenti allo stesso campo semantico, ma comunque differenti. È ciò che abbiamo a disposizione, insomma: la pietra e il bastone, l’acqua e l’argilla – la materia prima con cui costruire un pensiero. Beckett richiede questo: di prendere quanto è scritto e dare forma; non solo organizzare, ma anche aggiungere la struttura. Solo alcune frasi hanno un senso logico – isole nella melma. Compaiono e vengono ripetute più volte, come una sorta di ossessione; anzi: un’ossessiva campana d’allarme. Sono tutte correlate ai presentimenti, alle sensazioni, quasi sempre scaturite da dati oggettivi: “lo dico come lo sento”, “è di *termine generico* che si parla”, “qui c’è qualcosa che non va”, e, nelle pagine finali, un lapidario e vertiginoso “è giusto”.
Come se la percezione e il senso fossero legati dalla necessità: in narrativa tutto deve avere una motivazione di esistere o di succedere perché il lettore deve credere a quello che legge. Viceversa, alla vita ci si crede per definizione, perché succede a prescindere che ci si creda o meno. In questo senso, Come è è un diario animale: perché è la sensazione di Bom, ciò che percepisce dall’ambiente in cui è letteralmente immerso, a rappresentare gli ultimi pilastri del senso e della logica perché arrivano prima e più chiaramente del pensiero stesso. È qualcosa di primordiale, di più istintivo, che Bom sente e ripete come un riflesso senza nemmeno interpretare fino in fondo quanto percepito. Infatti riprende immediatamente a parlare d’altro, portando avanti il discorso interrotto. Come un bambino che ascolta la frase e la ripete cercando di emulare il genitore che l’ha pronunciata; ma la storpia, traballa su quella cantilena, e ne gambizza le parole.
Mi sono chiesto perché questo tipo di sperimentazione avesse senso in quel periodo storico, gli anni Sessanta, dopo il modernismo, dopo Joyce e Woolf. La risposta è, come detto, che questo è un pensiero pronto all’impianto, che rifugge ogni reazione xenofobica e che si integra come un virus nella mente del lettore così da utilizzarla per proseguire nell’evoluzione; vuole sradicare la paura di essere un individuo – un singolo, un sé – in mezzo ad altri individui. Perché non è l’altro a essere un pericolo, ma ciò che noi pensiamo di lui. E il modo più semplice per estinguere questa diffidenza è probabilmente ripartire da zero; inserire un nuovo sistema operativo e vedere che risultato restituisce la macchina, il lettore: formattare e riavviare.

Fabrizio Pelli è nato nel 2001 a Reggio Emilia. Ha scritto per Malgrado le mosche, Quaerere, Bomarscé, Enne2, Hook Literary Magazine, L’incendiario, Nazione Indiana, Sulla quarta corda, Il Primo Amore e Cedro Magazine.
È stato selezionato tra i semifinalisti del Premio Campiello Giovani 2022. Fa parte della redazione della rivista letteraria Enne2 e di Super Tramps Club.