di Dario Iocca
Perché preservare il patrimonio classico in un mondo orientato a una concezione utilitaristica dell’istruzione.
In un passo tra i più divertenti della sua autobiografia, Winston Churchill racconta il suo primo contatto, a sette anni, con il latino. Il maestro inizia la lezione consegnandogli un foglio con la prima declinazione da imparare a memoria, destando confusione nel giovane:
“Posso sapere cosa vuol dire?”. “Vuol dire quello che dice. Mensa, la tavola”, ripeté. “E come mai mensa vuol dire anche, O tavola?”. “O tavola è il caso vocativo. Questa espressione lei la può usare per rivolgersi a una tavola, per invocare una tavola”. “Ma è una cosa che non faccio mai” mi lasciai sfuggire in preda a un’onesta sorpresa. “Se fa l’impertinente sarà punito, e punito molto severamente, le posso assicurare” fu la sua risposta finale.
L’aneddoto dell’ex primo ministro britannico rappresenta un’istantanea abbastanza fedele, per quanto colorita ed estremizzata, di un approccio mnemonico e coercitivo dell’insegnamento delle lingue classiche che vige nelle scuole italiane, quasi nelle stesse identiche modalità, dalla riforma Gentile del 1923 ad oggi. Un’impostazione didattica che non è certo di matrice esclusivamente neoidealista, ma ha radici più profonde che risalgono almeno all’inizio del XVIII secolo, periodo in cui il declino del latino parlato porta alla costituzione di un metodo traduttivo affine a quello del greco, incentrato sugli aspetti morfosintattici della lingua. In questo processo le competenze strettamente linguistico-comunicative vengono meno e le lingue classiche diventano sempre più un sapere formale ed elitario, le cui motivazioni d’apprendimento si riducono a un modello tripartito sopravvissuto fino ai giorni nostri. Lo studio delle lingue classiche aiuta a: 1) migliorare la padr[…]