di Vincent Baker

A quelli come noi, ad aspettarli non c’è la morte, c’è l’inferno. Non me ne frega nulla di quello che dite, pensate, scrivete; le solite banalità. È tutta colpa della musica, è tutta colpa della droga, i videogiochi, le radiazioni, le cattive compagnie, cose strane e fuori dal mondo – che cazzo di mondo avete in testa. Sarà colpa del fatto che per tutta la vita ho sognato di conciarmi come Robert Smith, di girare libero per città sopra allo skate, rossetto sulle labbra, viso sbiancato, l’eyeliner, le unghie smaltate e i capelli sparati di lacca. È colpa del rock’n’roll, dicevano i genitori del mio amico ai miei, la mamma e il papà di mamma e papà quando i loro figli avevano su per giù la mia età. A undici anni mi truccavo allo specchio, mettevo su gli album dei Cure, sniffavo strisce di zucchero a velo, mi nebulizzavo acqua in faccia per sembrare sudato come dopo due ore di live concert o nella piena crisi d’uno shot d’eroina. Mettevo una sola lente a contatto, e mettevo in riga un immaginario giornalista benpensante che m’intervistava caustico su patria, religione e famiglia. Rispondevo con delle domande: che ne penso del suicidio? Del suo? No, non verrò al suo funerale; non lo sa che la Chiesa considera il suicidio un amplesso col diavolo? Emulavo, sognavo, immaginavo di salire sul palco dell’Hammersmith di Londra per suonare davanti a cinquemila persone; volevo essere Baudelaire, volevo essere David Bowie. E quando i miei rientravano dal lavoro e mi trovavano conciato così, non è che mi dicessero chissà cosa.
«Finiti i compiti?»
«Of course, mom».
«Struccati, ché tra dieci minuti ceniamo».
È colpa della musica, mi viene da pensare. Non è colpa del fatto che uscendo, agghindato a quel modo, a quarant’anni – come a venti, come capitava davvero – qualcuno avrebbe qualcosa da ridire, mi riderebbe dietro, punterebbe il dito, etichetterebbe, senza la minima intenzione, né la capacità, di capire. Seguire la linea, adeguarsi, poiché lo standard non è quello che c’è nella mia testa. Ho fatto un gioco: una mattina, mi presento in banca (non ha importanza quale) per chiedere un prestito: rossetto fresco di specchio d’ascensore, unghie laccate, rimmel, skateboard sottobraccio, per incontrare il direttore della filiale; subito mi guarda di traverso, trattenendo a stento gli angoli della bocca. Prima non sa che cosa dire, poi prende coraggio, indossa una faccia da culo e trova ben più che le parole. Finge di prendere in carico la mia pratica e, mentre me ne vado, la getta nel cestino, chiedendo a collaboratori e dipendenti: «Ma chi è quel fuori di testa scappato di casa, Moira Orfei?». Insomma, non è colpa mia, non è neanche colpa dei direttori di banca; io non so dare la colpa a qualcuno, alla società, alla storia del mondo, a un disagio, a una violenza, all’ignoranza, né all’invidia, all’odio represso o a quello espresso. Sono sicuro soltanto di una cosa: se non ottengo quel cazzo di prestito di cui ho bisogno, sarò costretto a dare la colpa, ahimè, alla musica.
Letture consigliate:
- Glamorama – Bret Easton Ellis (Einaudi)
- Please kill me – Legs McNeil e Gillian McCain (Baldini&Castoldi)
- I detective selvaggi – Roberto Bolaño (Adelphi)
- Bowie. Una biografia – María Hesse e Fran Ruiz (Solferino)
Il racconto ricorda la vita di G. C., che da un anno ha preso il nome di Jewel. Un braccio senza avambraccio, una sindrome bipolare, una testa geniale e incontrollabile, metà uomo e metà donna, più o meno, ma le percentuali non importano.
Temo per lui, temo soprattutto per sua madre, brillante scienziata negli USA (solo due persone al mondo hanno la sua posizione), che lo adora e comprende come solo chi ama davvero sa fare. Perché amare è sognare e cercare il bene dell’amato/a, il resto sono vari gradi di egoismo.
Complimenti all’autore.
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