di Nicola Lagioia
Nei giorni di pioggia la mano gli fa ancora male. Non può tenere il pugno ben chiuso, il che vuol dire che non diventerà mai un “dannato chirurgo” e nemmeno un violinista. Adesso ha sedici anni. Quando ne aveva tredici è successo che il suo fratello minore, Allie, è morto di leucemia. Quella notte Holden ha spaccato tutte le finestre del garage, e non contento ha tentato di fare la stessa cosa coi finestrini della giardinetta, ma a quel punto si era già rotto la mano.
Quando pensiamo al Giovane Holden, uno dei romanzi più letti di tutti i tempi, non dovremmo mai dimenticare Allie. Buona parte dell’opera di J.D. Salinger prende le mosse da questo: il tentativo di rielaborare un trauma in un mondo che finge di non vederlo. Che si tratti del soldato Seymour Glass appena tornato dalla II guerra mondiale (protagonista di Un giorno ideale per i pescibanana), o di Holden Caulfield, adolescente di buona famiglia impegnato ad attraversare la propria linea d’ombra, è il baratro alle spalle (una voragine la cui presenza nessuno, a parte loro, sembra sentire in modo così vero) a muovere i passi dei protagonisti delle sue storie.
The Catcher in the Rye esce nel 1951, prima che nei cinema arrivino Gioventù bruciata e Il selvaggio. Marlon Brando e James Dean offriranno un volto indimenticabile a un fenomeno nuovo – il disagio giovanile – su cui il secondo Novecento ricamerà a lungo, ma tutto inizia nella finzione letteraria a pochi giorni dal Natale del 1949, quando Holden Caulfield, espulso in Pennsylvania dalla scuola dove si sta preparando per il college, decide di andarsene a New York per un fine settimana all’insaputa dei genitori.
Il romanzo è la storia di questa piccola fuga – fuga e clandestino ritorno a casa, visto che la famiglia Caulfield vive proprio a New York – e a quasi settant’anni di distanza è ancora molto letto, amato, imitato, citato di continuo da altri romanzi, nonché da film, canzoni, spettacoli teatrali, videogiochi. Holden non ha il fascino tormentato né l’esplosiva sensualità di certe icone giovanili, è alto, allampanato, magro come un chiodo, ha un inconsueto ciuffo di capelli bianchi sul lato destro della testa e le sue trasgressioni sono davvero poca cosa rispetto a ciò che, in quello stesso periodo, combinano i personaggi di Jack Kerouac e William Burroughs. E allora perché tanta popolarità?
Non credo a chi sostiene che la fortuna del romanzo sia dovuta alla sua natura piccolo borghese, al fatto di saper dosare bene gli ingredienti di apprensione e rassicurazione. Al contrario, il segreto del libro sta nella capacità di evocare scenari sì rassicuranti (la scuola Pencey Prep, e poi New York, la città simbolo del Novecento) ma solo per farcene intravedere di continuo la precarietà, la fragilità, l’inquietante trasparenza. Tutto ciò che sembra solido e incrollabile è “made of glass”, per citare il materiale preferito del suo autore.
I dormitori della Pencey, gli uffici dei professori, gli alberghi di New York, la Quinta Avenue addobbata per Natale, il Museo di Storia Naturale, i locali del Greenwich, le piste di pattinaggio a Central Park: l’ordine del mondo si erge e si disfa di continuo davanti agli occhi di un ragazzo. La mente di Holden Caulfield è veloce, il suo malessere elettrico, la sua filosofia imprendibile, e la scrittura di Salinger restituisce tutto questo a perfezione. Qual è il senso della vita che facciamo? Cosa resta del patto tra giovani e adulti? Amare le persone e poi perderle: chi o cosa può impedire che vada sempre a finire così? Ecco le domande gigantesche ben nascoste nel buffo sproloquio di Holden Caulfield.
Il titolo del libro – letteralmente L’acchiappatore nella segale, intraducibile per noi – in Italia diventò prima Vita da uomo (nella sua uscita per Gherardo Casini editore) e poi, con Einaudi, Il giovane Holden (diventerà El Cazador Oculto in Spagna, L’Attrape-cœurs in Francia, De kinderredder van New York nei Paesi Bassi…) La copertina bianca Einaudi (frutto delle sfuriate iconoclaste di Salinger), niente immagini, nessun testo né commento né blurb in quarta o nei risvolti, è il miglior omaggio all’intransigente elusività del suo autore. E del resto tutto Il giovane Holden, se volete, è anche un tentativo di rispondere a un kōan zen che Salinger amava molto: a battere le mani, sappiamo il suono della mani insieme. Ma qual è il suono di una mano sola?
Questo pezzo è uscito su “Robinson – La Repubblica”