di Paolo Pecere.

Il rapporto tra l’attività cerebrale e l’identità di una persona è un tema attualissimo, che fin dalle sue prime formulazioni moderne ha messo in questione il ruolo della narrazione: come può collegarsi l’operare dei miliardi di neuroni che compongono il cervello, e che procedono in parallelo senza un centro di elaborazione unitaria, con la linea narrativa in cui l’individuo cerca di strutturare la propria vita, facente capo al pronome “io”?
La sfida delle neuroscienze rispetto alla psicologia individuale e alla narrazione fu formulata dal grande biologo Francis Crick in termini singolarmente brutali: “Tu, le tue gioie e le tue tristezze, le tue memorie e le tue ambizioni, il tuo senso dell’identità personale e del libero arbitrio, di fatto non sei altro che il comportamento di un’ampia assemblea di cellule nervose”. L’immagine dell’anima o della mente come città o parlamento, divisa e potenzialmente lacerata da conflitti, comune in filosofia da Platone a Hume, è ormai comunemente trascritta in termini neurologici. Ma l’urgenza di ribadire il fondamento materiale della mente non elimina la questione di capire come si formi un senso di identità, la cui natura autobiografica non sembra immediatamente comprensibile in una prospettiva neurocentrica.
Il filosofo Daniel Dennett, nel tentativo di articolare questo scarto, ha presentato il sé come una singolare “rete di parole e gesti”, prodotta in modo solo parzialmente consapevole, che costituisce una componente essenziale della vita dell’individuo pur essendo esterna al corpo di quest’ultimo, così come la ragnatela per un ragno. Ma posto che il sé sia prodotto mediante l’elaborazione cerebrale, per molti studiosi questa descrizione è ancora insufficiente a dar conto dell’esperienza soggettiva e del modo in cui in questa ha una relazione di passività ma anche di attività rispetto ai processi cerebrali che ne costituiscono la base inconscia. Su questo punto neuroscienze, psicologia e letteratura hanno trovato un luogo di incontro.
Una lotta continua
Tra i documenti più straordinari di questo incontro vi è il manoscritto autobiografico redatto da Lev Zaseczij e poi rielaborato dal grande psicologo sovietico Alexandr Lurija nel suo Un mondo perduto e ritrovato (1971). Zaseczij era un giovane tenente dell’armata rossa, ferito alla testa da un proiettile tedesco, che in seguito alle lesioni cerebrali perse gran parte della memoria a lungo e a breve termine, restò quasi del tutto incapace di parlare e finanche di orientarsi nello spazio, conservando tuttavia una coscienza di sé perfettamente integra e scoprendo che, sebbene riuscisse a leggere e a concentrarsi sulle parole solo con estrema fatica e lentezza, era ancora capace di scrivere fluentemente. Ne risultò un progetto di scrittura durato oltre vent’anni anni, intitolato Storia di una ferita terribile o Lotto ancora!, tremila pagine in cui Zaseczij racconta il suo drammatico impegno quotidiano per recuperare in parte le proprie capacità e ricostruire un senso della propria vita, partendo dal ricordo di quel ferimento che, come scriveva, lo aveva trasformato in un altro: “Ho ripetuto spesso a tutti che dopo essere stato ferito sono diventato un’altra persona, che sono stato ucciso nell’anno 1943, il 2 marzo”.
Nelle pagine di Zaseczij si trovano lunghe descrizioni di un’esistenza anomala e carente, di un “mondo frammentato” in cui l’individuo assiste impotente allo scollamento tra parole e cose, e la stessa immagine del proprio corpo è continuamente a rischio di perdersi.
E quando chiudo gli occhi non so nemmeno dove si trova la mia gamba destra, chissà perché ho sempre l’impressione (e la sensazione) che si trovi da qualche parte al di sopra delle mie spalle e persino al di sopra della mia testa; non riconosco mai la mia gamba (dal piede fino al ginocchio), non ne ho coscienza […] Sono seduto su una sedia e all’improvviso… divento alto, mentre il mio tronco di accorcia, la testa ora è piccolissima, sembra quella di un pulcino, non è possibile immaginare una cosa così nemmeno volendo!
In questa storia di trasformazione del corpo e del mondo, che ricorda a tratti Alice nel paese delle meraviglie, Zaseczij era al tempo stesso il tragico eroe e il narratore. Il suo diario è anche la testimonianza di uno scrittore che consacra la vita alla propria opera e trova in essa un percorso di realizzazione altrimenti impraticabile. Scriveva di continuo per tornare a essere qualcuno emergendo da un’esistenza di “ombra”, poiché solo scrivendo riusciva a pensare e a comunicare:
Questo volevo ottenere scrivendo quasi ogni giorno il mio unico racconto sul ferimento alla testa subìto, sulla successiva malattia alla testa e su come volevo vincere questa malattia per mezzo del mio racconto, affinché tutti lo sapessero… È già il terz[…]
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