di Corrado Premuda.

“Fuori da questa stanza hanno paura di me… dentro a questa stanza hanno bisogno di me…” Per qualche secondo il pubblico assiepato intorno all’attrice rimase in silenzio, come in sospeso. Era proprio la fine o una pausa che annunciava un nuovo movimento del monologo? Ma lei, riaperti gli occhi e fatto un impercettibile gesto di distensione, fece capire senza ombra di dubbio che lo spettacolo era terminato. La gente cominciò a battere le mani e lei mantenne ancora un po’ quella posizione da statua che le donava il carisma che molti le riconoscevano. La sala zeppa di opere d’arte si riempiva sempre più dell’applauso avvolgente e l’attrice cominciò a prenderselo tutto, afferrando con le braccia il calore del suo pubblico. Ringraziò con inchini e baci lanciati all’alto soffitto, volteggiò come sospinta dall’entusiasmo dei suoi quarantotto ammiratori presenti.
“Complimenti! Bravissima! È stato emozionante, grazie!” Nel camerino improvvisato ottenuto con un pannello che fungeva da séparé la donna ricevette gli omaggi e le parole adoranti di numerosi spettatori. “Sei stata fantastica, come sempre!”, sentenziò l’abbronzatissima seconda moglie del suo amico giornalista ma lei percepì con chiarezza la falsità di quelle parole. Il suo amico non parlava ma era chiaro che lui sì aveva davvero apprezzato. Un gruppo di studentesse liceali accompagnate da una professoressa occhialuta e sfiorita continuava a guardarla con pudore ridacchiando. Solo la più coraggiosa delle fanciulle mormorò un apprezzamento. I colleghi di una compagnia teatrale con cui aveva lavorato l’anno prima si prodigarono in consigli e commenti: “Tu sei molto convincente e te la cavi egregiamente, ma è il testo che andrebbe un po’ rivisto, sfrondato. E soprattutto, la regia? Che fine ha fatto la regia? Adesso che non ci sono più soldi bisogna fare a meno dell’occhio esterno di un regista? È angosciante, è la fine!” L’attrice aveva scorto anche quell’uomo alto e dalle spalle larghe che da qualche tempo era diventato la sua ossessione. Si trattava di un allenatore di basket che non mancava mai alle sue esibizioni. Da quando era in scena al museo Revoltella, lui aveva assistito a tutte le repliche: era chiaro che il motivo di questa così assidua frequentazione non poteva essere che lei. Alla prima le aveva portato un enorme mazzo di fiori, esagerato e pieno di nastri. Lei l’aveva ringraziato ma non intendeva approfondire la conoscenza: era infastidita da lui e trovava odioso che ogni pomeriggio comparisse là inesorabile. Però pagava sempre il biglietto, e lei doveva pensare alla sua sopravvivenza.
“Ci raggiungi giù per bere qualcosa?”, le chiese il critico d’arte che aveva organizzato la rassegna. La donna annuì, sorrise e tornò nel suo angolo a cambiarsi. Quando recitava diventava una specie di macchina: le parole e il corpo del ruolo che impersonava di volta in volta si impossessavano di lei. Ma nel muoversi, quasi automaticamente, tra il pubblico seduto intorno a lei e i quadri che fungevano da quinta teatrale, i suoi occhi registravano tutto e non perdevano un colpo. La sua vicina di casa era arrivata a spettacolo già iniziato disturbando la concentrazione dei presenti, la moglie abbronzata del suo amico aveva sbadigliato tre volte e aveva guardato a più riprese l’orologio, la professoressa più che alle sue timide allieve era interessata alle opere del museo che aveva fotografato senza posa, mentre il fedele ammiratore sportivo non aveva staccato lo sguardo da lei nemmeno per un attimo. Proprio per questo suo acuto spirito di osservazione aveva sentito che qualcosa non andava. Quel pomeriggio nello spazio al sesto piano del museo che ormai conosceva bene qualcosa non quadrava. Forse qualcuno del personale aveva spostato una scultura o era stata accesa una luce che di solito non c’era.

L’avvertirono che stavano per chiudere il museo, doveva affrettarsi a scendere. L’attrice raccolse la sua borsa e andò a riporre il vestito e gli oggetti di scena nello stanzino al piano di sotto. Le avevano dato le chiavi e poteva ormai muoversi agilmente in quel grande palazzo senza chiedere l’aiuto e il permesso a nessuno. Nello stanzino bevve un sorso d’acqua dalla bottiglia e inalò del Ventolin con lo spray. Era stanca, per un momento le era mancato il respiro. Prese il borsone a tracolla e quasi barcollò per il suo peso. Uscì dallo stanzino sistemandosi i capelli e con l’ascensore fu rapidamente al piano terra. I saloni del Revoltella erano finalmente vuoti e tranquilli e solo i custodi si attardavano davanti al portone. “Arrivederci a domani”, le dissero e l’attrice con un sospiro sgusciò fuori dal museo.
Nella strada si era riversato il popolo dell’aperitivo estivo e musica e schiamazzi la facevano da padroni. Ma c’era una brezza fresca che preannunciava la sera e la donna se ne rallegrò. Seduto davanti a un calice di Prosecco il critico d’arte la investiva di progetti: “Ho trovato un nuovo testo che voglio farti leggere: nasce come saggio sul ritratto femminile ma è talmente anti femminista che è perfetto da recitare in una pinacoteca. Secondo me te ne innamori subito!” L’adrenalina era scemata del tutto e adesso lei era solo spossata e desiderosa di lasciare quel bar sempre più rumoroso per rintanarsi a casa e fare una lunga doccia tonificante. Si erano aggiunti altri amici al tavolo e tutti parlavano concitatamente quando d’un tratto la confusione arrivò al suo apice e fu suggellata da una specie di grido. “Il Morandi! Il Morandi è stato rubato! Rubato!” Davanti a lei e ai suoi compagni campeggiava il direttore del museo, sudato e con le mani nei pochi capelli rimasti. “Non so come sia potuto succedere ma il paesaggio innevato del sesto piano è sparito!” Il pover’uomo era circondato da molte persone che parlavano una sull’altra e in breve arrivò anche la polizia che era stata chiamata per il clamoroso furto. “Hai presente quel piccolo quadro in bianco e nero?”, le chiese il critico d’arte, “Quello appeso non lontano da dove ti esibisci tu… È uno dei rari paesaggi che ha dipinto Morandi. Potrei sbagliarmi ma è tra i pezzi più preziosi del museo.” L’attrice era basita e osservava la scena con le pupille piccole come spilli. Si ricordava benissimo di quel quadro malinconico, quella scena in bianco e nero che parlava allo spettatore per sottrazione: niente forme di vita, nessuna presenza umana, solo neve. Ecco cosa mancava dalla parete vicino a lei! Si era accorta di qualcosa ma prima non era riuscita a focalizzare con precisione. Deglutì pensierosa, assorta. Un altro pensiero la turbava. Prima del suo monologo il quadro di Morandi era regolarmente al suo posto. Adesso lo sapeva, adesso rivedeva le istantanee che il suo sguardo da automa aveva catturato. L’opera era stata rubata durante lo spettacolo, o un attimo prima che lei uscisse dalle quinte del pannello divisorio. Chissà se concentrandosi ancora sarebbe riuscita a capire chi era stato.
Rientrata nel suo appartamento sulle rive, la donna crollò sul divano abbandonando il borsone sul pavimento. Un tonfo attutito accompagnò quel gesto. Convinta di aver inavvertitamente rotto qualcosa, frugò tra i vestiti, i fogli, le scatole del trucco. Ma fu un oggetto voluminoso e rigido a farla sobbalzare mentre tastava nel fondo buio. Con le mani incredule dalla sua sacca afferrò un quadro: era il paesaggio di Giorgio Morandi. L’attrice si sistemò meglio sul divano. Si alzò di scatto per un attimo e poi tornò giù come un sacco di patate. Perché? Perché qualcuno aveva rubato l’opera e l’aveva infilata nella sua borsa? Chi l’aveva fatto? Qualcuno che voleva incastrarla e farla passare per ladra? La donna si sentiva osservata. Sudava e le batteva il cuore. Ripensò in un baleno a tutte le persone che avevano assistito allo spettacolo nel pomeriggio e tutti le sembravano poter avere un motivo per odiarla. Bevve un bicchiere d’acqua e tornò lucida. “Non posso tenere qui il quadro, prima di tutto devo liberarmene. Al ladro ci penserò dopo.” Il problema era trovare alla svelta un posto in cui custodire il Morandi: la polizia non ci avrebbe messo molto a sapere che anche lei possedeva le chiavi del museo. Dove ficcare quel maledetto prezioso quadro? L’idea era folle e la fece ridere per un attimo. Poi, invece, si disse che era proprio l’unica cosa da fare: avrebbe riportato il dipinto al Revoltella quella notte stessa.
Quando l’attrice si trovò davanti al pesante portone nero non c’era traccia di polizia in giro. Aveva vuotato la sacca che adesso conteneva solo l’opera rubata. Se qualcuno avesse scoperto che il quadro l’aveva lei, l’avrebbe accusata di furto e qualsiasi storia avesse raccontato l’avrebbero giudicata una scusa ridicola. Sbuffò seccata per quel contrattempo ma infilò la chiave nel portone. Dopo qualche giro la maniglia si aprì e la donna entrò nell’atrio buio. Eccola su una scena teatrale che non aveva previsto né voluto, con una trama di cui avrebbe fatto volentieri a meno, nei panni di un’eroina che le sembrava una disgraziata fin dalle prime mosse. Scelse le scale perché l’ascensore la spaventava. Con una torcia si illuminò la strada: salì i gradini vellutati del palazzo del barone, passò quatta quatta davanti a statue e mobilia d’epoca, e poi raggiunse l’ultimo piano. Aveva appena estratto dalla sacca il quadro, che avvertì un fruscio alle sue spalle. Aveva lasciato la torcia a terra ed ebbe la prontezza di non far cadere Morandi ma lo appese senza indugio al suo chiodo. Poi si voltò di scatto e afferrò la torcia. La sagoma alta e ben piantata apparteneva all’allenatore di basket. “Ci avrei giurato che era stato lei. Cosa vuole da me? Ha rubato il quadro e me l’ha messo in borsa. Perché mi perseguita? Vuole rovinarmi?” L’uomo fece una mossa come per avvicinarsi ma lei si precipitò rapida verso le scale: conosceva un passaggio usato solo dal personale e sarebbe scappata via da lì. Mentre volava sui gradini con il cuore in gola sentì l’uomo gridare: “Ma no, non sono stato io! La sto seguendo per aiutarla… aspetti, non ho intenzioni cattive…” La donna non udì altro. La porta segreta si richiuse con lei e dopo pochi secondi, in qualche modo, era fuori dal museo. Ansimava e le tremavano le gambe. Il ruolo più assurdo che avesse mai recitato. Voleva andare alla polizia per raccontare l’accaduto ma non respirava più. Sarebbe prima passata da casa a prendere il Ventolin. La notte era fresca, chiara, con la luna piena che rendeva magico il mare immobile. La bianca signora nel cielo la stava di certo guardando con compassione: povera piccola donna patetica!
Raggiunse il suo appartamento, la porta era aperta. Era uscita così di furia con quello scottante paesaggio innevato da lasciare tutto aperto? Non lo faceva mai. Il Ventolin le diede sollievo. Si afflosciò sul divano e accese la luce: solo allora si accorse che l’appartamento era tutto sotto sopra. Stava per scattare in piedi per chiamare la polizia quando una voce le inchiodò la schiena al cuscino. “Dove ha messo il quadro?” Era una voce femminile, acuta e sgradevole. L’attrice si voltò lentamente verso la porta della sua camera e vide una figura magra e sinistra con un paio di occhiali spessi e voluminosi. Al primo momento non la riconobbe ma poi si accorse che si trattava della professoressa che nel pomeriggio aveva accompagnato le allieve allo spettacolo. La sorpresa lasciò subito il posto alla rabbia. Con la sua voce impostata tuonò: “Lei è una ladra! Perché ce l’ha con me? E perché ha infilato il quadro nella mia borsa?” La strana docente avanzò leggera nel salotto e si aggiustò gli occhiali: “Io non ce l’ho con lei, si tranquillizzi. E sul termine ladra ci andrei cauta: quel paesaggio livido e desolato di Morandi mi appartiene, parla proprio della mia solitudine. Qualcosa che lei che fa l’attrice non può capire, per lei le emozioni sono un’indicazione del regista di turno.” Alla parola “regista” la donna scattò in piedi: “Ma lei è pazza!” La ladra occhialuta non si scompose: “Nossignora, non pazza. Piuttosto sono lucidamente ossessionata dal dipinto del maestro. Mi dispiace di aver scelto lei per portare a termine il mio piano, mi è anche simpatica, sa? Ma con l’accesso privilegiato che ha al Revoltella, era più sicuro far uscire il quadro tramite lei. Io avrei dato nell’occhio, se mi avessero scoperto sarebbe stata la fine.” L’attrice era furente e si avventò sull’intrusa: “Però non si fa scrupoli a decretare la mia di fine!” Con sorprendente rapidità la professoressa estrasse dalla tasca una piccola pistola: “Mi rincresce davvero, cara”, disse con voce gelida. “La lascio con un’ultima annotazione: lei sarà anche brava ma avrebbe dovuto recitare Pirandello, mi creda.” L’attrice chiuse gli occhi con forza aspettandosi il colpo ma dovette riaprirli perché la ladra aveva cacciato un urlo. Su di lei era piombato con un salto l’allenatore di basket che si era impossessato dell’arma e immobilizzava la disperata: la donna non protestava neanche, rimase lì con lo sguardo basso, impotente di fronte all’evidenza della sconfitta. “Adesso può chiamare la polizia”, disse l’uomo con tono rassicurante all’attrice. Questa si sistemò i capelli e prese in mano il telefono. Il corpo di quell’uomo, con i muscoli guizzanti sotto la maglia, ricordava la prestanza di un ghepardo o la quieta forza del leone. C’erano diversi tipi di lucida ossessione: quella del suo ammiratore per lei le aveva appena salvato la vita. Senza farsi notare l’attrice sorrise, poi digitò il numero e recitò una battuta che avrebbe sempre voluto dire: “Pronto, polizia?”

Corrado Premuda è giornalista free lance, autore di testi teatrali e cataloghi d’arte. Scrive di cultura per il quotidiano di Trieste “Il Piccolo”; il suo blog Motivi personali è dedicato al mondo della scuola in cui insegna lingua e letteratura italiana.
Ha pubblicato racconti e romanzi per Nutrimenti, Giunti, Editoriale Scienza, con traduzioni uscite in Austria, Croazia e USA. È possibile leggere estratti dei suoi racconti sul sito corradopremuda.com.