di Nicole Rudick (traduzione di Terry Passanisi).

In “The Storyteller”, saggio del 1936, il filosofo e critico ebreo-tedesco Walter Benjamin descrive quello che vede come l’inizio della fine della tradizione orale in Occidente. Il trauma collettivo della prima guerra mondiale e i suoi effetti collaterali stavano rendendo la comunicazione di esperienze condivise, attraverso il racconto di storie, un ricordo del passato. Scrive: «Una generazione che era andata a scuola su un tram trainato da cavalli ora si ritrovava sotto il cielo aperto di una campagna in cui nulla era rimasto invariato, se non le nuvole, e sotto queste nuvole, in un campo di forza di torrenti distruttivi ed esplosioni, stava il minuscolo, fragile corpo umano». Al centro di questo processo storico c’è una cupa efflorescenza di esperienza: la sensazione di essere alla deriva in un paesaggio sconosciuto, un sentimento che persiste come condizione determinante del XX secolo, quando il mondo si stava espandendo e diventava delimitato allo stesso tempo. Qualche decennio dopo che Benjamin pubblicò il suo saggio, lo scrittore Luc Sante e i suoi genitori emigrarono negli Stati Uniti dal Belgio. La madre e il padre di Sante parlavano pochissimo inglese e, «venati di un certo amaro realismo», osservarono la cultura straniera che li circondava da una distanza intimidatoria, come spiega Sante nella sua introduzione a “Peanuts. Tutte le domeniche: 1961-1965”. «Non fu sorprendente, quindi», continua Sante, «che mio padre, uomo intelligente e capace che aveva ricevuto una serie di pessime mani dalla vita – povertà, guerra, un’educazione tronca – aveva dovuto vedersi riflesso in Charlie Brown». Anche se sarebbe diventato di casa e amato dagli americani di ogni estrazione, il bambino del fumetto di Charles Schulz parlava del senso di dislocamento, sfortuna e calamità dell’émigré.

Un corpo più piccolo e fragile di quello di Charlie Brown non potrebbe esserci – il busto abbreviato, gli arti economizzati e la testa nuda e vulnerabile. Quella testa: con il minimo di linee, Schulz creò una sfera intatta e capiente su cui poteva giocare un mondo di espressioni. Nella striscia della domenica del 15 ottobre 1961, il titolo della vignetta mostra la testa di Charlie Brown come un mappamondo da tavolo, impresso dalla griglia di latitudine e longitudine. La striscia ce ne svela il senso: per illustrare a Linus la distanza tra due posizioni (l’assurdo abbinamento di Texas e Singapore), Lucy traccia i punti sulla parte superiore dell’impassibile zucca calva di Charlie Brown.
Intorno a questa vulnerabile forma umana c’è un più ampio mondo: ostile, estenuante, potente nelle occasioni del fallimento. A briglia sciolta grazie al momento storico, gli agenti del cambiamento di Benjamin, quei “torrenti ed esplosioni” (come i durevoli “fruste e disprezzi del tempo” di Amleto che si estendono fino a includere gli intimi “spasimi dell’amore disprezzato”) sono qui come umiliazioni perenni che si svolgono in un universo insondabile e incomprensibile. “Peanuts”, disse una volta Schulz, «si occupa della sconfitta». Al suo centro, il fumetto analizza l’angoscia esistenziale, striscia dopo striscia – non l’ansia della Guerra Fredda, nuvola sotto la quale i “Peanuts” si sono sviluppati e sono fioriti, ma le ansie di un giardino variegato nella vita di tutti i giorni. Charlie Brown è il fumetto dell’uomo medio («Di tutti i Charlie Brown del mondo, tu sei il più Charlie Brown», si lamenta Linus nel lungometraggio per la TV “Peanuts” del 1965), capace di perdere un giorno e pure il giorno successivo pur di portare a termine le cose. Eppure, radicato nella vita reale come sembra, “Peanuts” mostra molto poco del mondo reale. Il fumetto colpisce per i suoi dettagli visivi ridotti, le sue impostazioni generiche e ripetitive e la sua limitata azione. Sebbene le prime strisce fossero piene di dettagli, Schulz sviluppò presto uno stile formalmente minimale. C’è poco in termini di prospettiva e di profondità e l’azione in ciascuna vignetta si sposta da destra a sinistra, da sinistra a destra come se si fosse su un palcoscenico.
Ricordo di aver notato subito, da bambino, questo mondo circoscritto in cui Charlie Brown e la sua banda espongono i loro problemi. Era così marcatamente diverso da quello di un altro fumetto filosofico profondamente sentito nella mia giovinezza, “Calvin & Hobbes”, che esplode, come ossatura, a livello visivo e della fantasia. Nella striscia dei “Peanuts” di domenica 9 giugno 1963, Charlie Brown e Sally ammirano il cielo notturno mentre lui le spiega il movimento futuro delle stelle che costituiscono l’Orsa Maggiore. Tutte e otto le vignette raffigurano la stessa scena: Charlie Brown e Sally in cima a un cumulo di terra, il cielo scuro che avvolge i loro corpi. Il nulla li circonda – sia formalmente, sulla pagina, sia letteralmente, nello sbadiglio nero dello spazio. Qui non succede molto, tuttavia, nella sua apertura e nella conversazione, la striscia è viva di meraviglia, di possibilità e umanità. Schulz fa molto con il nulla. In un’altra striscia della domenica, del 19 novembre 1961, la vignetta del titolo mette la testa rotonda di Charlie Brown accanto alla grande faccia rotonda di un orologio (la sua espressione ansiosa e i capelli a nido d’uccello rendono i suoi lineamenti un contrappunto all’uniformità dell’orologio). Siamo invitati a considerare la solitudine dell’ora di pranzo della scuola, quando Charlie Brown deve letteralmente sedersi con i suoi pensieri: ognuna delle vignette sotto la prima fila presenta la sua figura solitaria e un fumetto che dà voce al monologo interiore. La frugalità di ogni fotogramma rivaleggia con quella del palcoscenico stabilito per “Aspettando Godot” di Beckett: solo una panchina e un pranzo in un sacchetto di carta. Non è un caso che le vignette distribuite uniformemente in formato francobollo siano dodici, come le ore di un orologio. Ogni movimento della testa di Charlie Brown – guarda fuori e giù, poi su e a destra – è attivato dall’occhio del lettore che si muove ritmicamente da una vignetta all’altra, come il ticchettio di una lancetta dei secondi.
Quella deliberata ritmica – in particolare la sua piacevole misura – è essenziale per il modo in cui i “Peanuts” funzionano come uno spazio per il pensiero. Una striscia dei “Peanuts”, anche se apparentemente piena di avvenimenti, si svolge con estrema pazienza. La striscia di domenica 18 aprile 1965 raffigura un disaccordo (innescato da Lucy, ovviamente) sul monte del lanciatore. Lucy vuole che Charlie Brown, intento a lanciare, «spazzi via quel tipo», ma Charlie Brown si rifiuta, e ne consegue una discussione sulla moralità. Gli scrupoli di Charlie Brown nel lanciare una beanball, la palla addosso al battitore, lo rendono uno storico ipocrita mondiale, secondo gli altri. «Non è il modo in cui i primi coloni trattavano gli indiani? Era morale? Che ne dici della Crociata dei Fanciulli? Era morale?» Ogni nuova vignetta porta un nuovo partecipante e una nuova prospettiva sul tumulo del lanciatore, e le accuse diventano colloquio. Nella penultima vignetta, dieci giocatori si trovano sul monte di Charlie Brown (un pulpito invaso dai parrocchiani) e cinque balloon, densi di ragionamenti filosofici («Definisci la morale!»), saturano il cielo sopra le loro teste. Ma Schulz mette ordine a tutto questo caos, disponendo i suoi personaggi in una sola riga (la vignetta è inequivocabilmente un’“Ultima Cena”, con i personaggi, tranne Charlie Brown, raggruppati per tre). La scena si legge da sinistra a destra, sia insieme che indipendentemente dal dialogo – una progressione ordinata che può essere colta con un placido colpo d’occhio. (La corroborante riflessività dei “Peanuts” ricorda quella, successiva, di “Sesamo Apriti”. I due condividono anche il rifiuto della violenza e della maniacale forza che caratterizzano i programmi per bambini dell’epoca.) Il ritmo delle strisce domenicali, più lunghe, è particolarmente efficace, in quanto esse hanno più spazio per esprimersi. Ma lo stesso effetto si manifesta su scala minore nei quotidiani. In una striscia sul baseball a quattro vignette del 5 agosto 1972, Lucy arringa Charlie Brown dal lato sinistro del campo. L’intera metà superiore della seconda vignetta è rigorosamente riempita della sua invettiva, espressa in un groviglio di caratteri in neretto e punteggiata alla fine con un accattivante, elettrizzante «buuuuuuh!!» La sua energia è palpabile, ma non può durare. Nella vignetta successiva, si siede a terra, sola e silenziosa, come un oceano calmo, e l’occhio del lettore si posa sulla sua forma e sullo spazio bianco aperto che la circonda per un tempo sorprendentemente lungo prima di passare all’ultima, amara vignetta auto-riflessiva.

Alcune strisce sembrano più una serie di vignette che i “Peanuts”, specialmente quando lo scenario già minimale scompare a favore di sfondi bianchi o vuoti monocromatici, come se uno spesso sipario fosse sceso a spingere un personaggio ancora più fuori dal tempo e in qualche altro regno colmo di sentimenti. La generosa assegnazione di spazio bianco nelle strisce quotidiane non ha origine dallo stile, ma dalla necessità. Come spiega David Michaelis in “Schulz and Peanuts: a Biography”, il fumetto venne inizialmente venduto come potenziale riempitore di spazi, per essere utilizzato in qualsiasi sezione di giornale, anche al posto degli annunci. Per attirare l’occhio del lettore, Schulz optò per l’approccio meno-è-di-più, con l’obiettivo di “suscitare una reazione” allo spazio bianco e far riecheggiare ciò che una volta si chiamava “piccolo inconveniente”. L’utilità di quella semplicità divenne chiara mentre la scrittura di Schulz si approfondiva. «Più sviluppavano poteri e appetiti complessi, pur rimanendo fedeli alla semplicità delle loro sagome e di giochi d’ombre», scrive Michaelis sui personaggi del fumetto, «più facile era per Schulz esprimere le cose difficili che si prefiggeva di dire». Se Schulz avesse riempito le sue vignette di distrazioni visuali, l’azione d’esame dei problemi introspettivi avrebbe potuto rivelarsi meno efficace.
Le qualità formali dei “Peanuts” hanno fatto del fumetto una mosca bianca. Da ragazzo, Schulz leggeva fumetti che incorporavano punti di tratteggio incrociati, profondi punti di fuga e linee filiformi, nonché il magistrale modernismo di “Gasoline Alley” di Frank King. Ma tale sovrabbondanza visiva non gli piaceva come vignettista praticante – era, per sua stessa ammissione, «un grande sostenitore della mitezza nei fumetti». E i contemporanei al suo fumetto? “Beetle Bailey” di Mort Walker e “Dennis la minaccia” di Hank Ketcham iniziarono nello stesso periodo dei “Peanuts”. “Beetle Bailey” è una striscia semplice, che dipende dalle gag, disegnata con ciò che Michaelis chiama “esagerazioni elastiche visive” e “Dennis la minaccia” si basa su una vasta gamma di dettagli visivi funzionale al suo assurdo umorismo situazionale. Entrambi crebbero più rapidamente dei “Peanuts” in termini di lettori e riconoscimenti, ma nessuno dei due raggiunse il suo ampio impatto culturale.
Si può facilmente dimenticare quanto improbabile potesse apparire questa ascesa culturale quando i “Peanuts” debuttarono. Schulz creò un bambino dalla strana fisionomia, un cane antropomorfizzato e una miriade di bambini che non si comportano o parlano come fanno i bambini, e li collocò in un ambientazione efficiente e anonima – giusto sulla superficie della realtà, si potrebbe dire. Il lettore potrebbe risultare scettico con questa configurazione. Eppure la lotta emotiva di Charlie Brown gli è familiare, il lettore se ne entusiasma. Bertolt Brecht avrebbe approvato i “Peanuts”. Cercò la stessa “parziale” illusione per il proprio teatro, e disse, «affinché possa sempre essere riconosciuto come un’illusione». Sia troppo completa un’impressione di naturalezza e ci si dimenticherà che questa non è realtà ma arte. Brecht vorrebbe che noi leggessimo non letteralmente, ma criticamente e interpretativamente. Anche se “Peanuts” non si pone tutti gli stessi obiettivi di un pezzo di teatro politico e didattico come “Madre Coraggio e i suoi figli” di Brecht, anch’esso è concepito per coinvolgere e impegnare, e non essere affrontato in maniera superficiale. La striscia «tratta di cose intelligenti», disse Schulz una volta, «cose da cui la gente è stata spaventata». Non considerò i “Peanuts” un fumetto per bambini; anche di Snoopy, il suo personaggio più adatto a loro, Schulz ne fece un caparbio, a volte ansioso sognatore.
Mi chiedo se Brecht avrebbe amato Lucy più di tutti, come me. Nata nei “Peanuts” come “elemento pedante”, divenne ben presto un motore principale dietro il conflitto delle strisce e i sentimenti di disillusione di Charlie Brown. Lucy è assertiva, nervosa, sicura di sé, testarda e manipolatrice; riesce a guardare trasognante il bambino che le piace mentre lo critica per la sua indifferenza. E, nonostante la sua furia quasi costante, è una persona che prova un dolore profondo. Nella striscia della domenica del 30 giugno 1963, si sente a terra e infuriata, «Non ho mai avuto niente e non avrò mai niente!» Linus le risponde pazientemente: «Beh, per prima cosa, hai un fratellino che ti ama». E Lucy, esasperata, piange tra le sue braccia. La sua modernità è esposta al meglio nella sua bancarella da psichiatra, che offre una sorta di scorcio del dietro le quinte – quella rottura con l’illusione su cui Brecht insisteva. Parodia semiseria della bancarella della limonata dei bambini, il banchetto di Lucy si autodefinisce consulenza psichiatrica, ma non offre nessuno dei consueti orpelli al di là della scarna baracca – ma questa rappresentazione ridotta (insieme, forse, all’autorità in cui Lucy confida) consente a Charlie Brown di riconoscere lo scopo dell’installazione. Anche il lettore lo riconosce, ma percepisce ciò che Charlie Brown non fa (o sceglie di non fare): la bancarella è una facciata, sia nella struttura che nell’intento. A differenza dell’ingenuo giovane paziente, noi non saremo ammaliati dal consiglio schietto di Lucy. Tuttavia, quando leggiamo il consiglio, lo capovolgiamo nelle nostre menti, colpiti da una più grande verità che sappiamo essere una pessima idea.
Ancora un’altra caratteristica visiva che definisce i “Peanuts” è il muretto su cui i personaggi a volte si fermano per conversare. Alcune strisce giornaliere si svolgono interamente dietro questo muretto, come quella di martedì 6 maggio 1958, in cui Charlie Brown e Lucy si appoggiano sulla pietra uniforme, rivolti verso il lettore, in tutte e quattro le vignette. Il muretto colpisce come un elemento decisamente teatrale, improvvisato come qualsiasi altro che potesse essere portato su un palco. Le linee delle vignette formano un arco di proscenio pulito. (È un dispositivo così ovvio che quando lo vedo penso a Snout in “Sogno di una notte di mezza estate”, il quale, recitando la parte di un muro nella commedia, insiste: «Questa calce, quest’intonaco, e questa pietra, mostran ch’io / son quel muro – proprio così!») Se la bancarella di Lucy divide i personaggi, uno su ciascun lato del banchetto, e le dà un’aria di autorità dialogica, allora il muro è più socratico, un sito che incoraggia la meditazione cooperativa e la riflessione. Nella striscia di lunedì 17 marzo 1969, Linus e Lucy sono sul muretto. «Ho molte domande sulla vita e non trovo alcuna risposta!» si lamenta lei, aggiungendo, nelle successive due vignette, «Voglio delle vere risposte che si rispettino… Non voglio un mare di opinioni… voglio risposte!» Nell’ultima vignetta, Linus le offre una risposta che non è una risposta, che è essa stessa una domanda e può solo generare ulteriori domande: «Vero o falso ti andrebbe bene?»

Attraverso i “Peanuts”, Schulz volle esprimere dure verità su, come disse, «cose intelligenti». Ma la verità principale che esprime è che non ci sono risposte alle grandi domande. Sul lungo termine, nessuno vince e nessuno perde; questo non è un dramma, è la vita. Il conforto della striscia è che il lettore non è il solo ad affrontare questi ardui problemi, e il suo dono è uno spazio in cui è invitato a pensare, a contemplare il quadro d’insieme su piccola scala, che vale quanto immergersi nell’atmosfera emotiva di un dipinto di Rothko. Sarebbe allettante e desiderabile, forse, pensare ai “Peanuts” come a uno specchio in cui il lettore vede ed è assorbito dal proprio stesso riflesso, ma quella visione minerebbe l’elegante semplicità della creazione di Schulz: personaggi potentemente complessi che, insieme, rappresentano le parti costituenti l’umanità e che operano nell’ombra, per prendere a prestito la definizione di Michaelis. Schulz creò in Charlie Brown «un uomo che riflette sul suo ruolo», che è ciò che Benjamin scrisse dell’attore nel concetto di teatro epico di Brecht. (E qui, ancora una volta, non siamo tanto lontani da Amleto.) L’ironia della piattezza visiva e dell’economia dei “Peanuts” è nel generare uno spazio capiente – spazio sufficiente sia per le riflessioni di Charlie Brown sulle dure verità di Schulz sia per la considerazione personale del lettore su queste grandi idee. Il traguardo della striscia, e un valore significativo della sua longevità, è la creazione di uno spazio di indagine che non si chiude mai.
Agli albori del fumetto, Schulz non conosceva appieno i suoi personaggi, nel modo in cui un romanziere o un drammaturgo creano un set di personaggi, ma deve poi seguire il prototipo di quei personaggi per capire dove sono destinati ad andare e che cosa sono destinati a fare. Una striscia dei “Peanuts” può essere soddisfacente solo nel modo in cui una singola frase brillante di un romanzo può essere soddisfacente; la citiamo oppure la appuntiamo alla parete come promemoria di un’idea o di un sentimento, e può stare in piedi da sola, pur essendo sempre solo un frammento di una storia più ampia. Non è sufficiente vedere una volta Lucy togliere il pallone da sotto a Charlie Brown; il punto è che lo fa ancora e ancora e ancora. La ripetizione dell’atto, tra una striscia e l’altra, da autunno ad autunno, produce ogni volta la stessa domanda: perché lo fa e in che modo lui le risponde? E, ogni volta, la risposta è diversa. (Charlie Brown «perde in così tanti miserabili modi,» osservò Schulz in un’intervista con Al Roker al “Today Show”, nel 1999.)
La scrupolosità con cui Schulz esamina l’umanità non scade e non smette di provocare stupore (proprio come la persistente sciarada di Lucy con il football). Nella striscia della domenica del 26 novembre 1961, Snoopy trascorre una dozzina di vignette senza parole delimitate da sipari di pioggia che tagliano verticalmente e violentemente ogni scena. Schulz punteggia i lesti scatti in velocità del beagle, resi su sfondi monocromatici, con tenui momenti di pace, mentre si ferma sulle porte e sotto gli ombrelli – piccoli momenti di recupero in mezzo a una cacofonia visiva. La vignetta finale lo mostra disteso in cima alla sua cuccia: la pioggia cade ancora in torrenti brutali, ma è in grado di affrontarla, infine, un tenero corpo a riposo in un paesaggio familiare.
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Articolo originale: https://www.newyorker.com/books/page-turner/how-peanuts-created-a-space-for-thinking