Cultura Letteratura

Alzare lo sguardo

Esce il 5 settembre «Alzare lo sguardo» (Solferino), pamphlet di Susanna Tamaro in forma di lettera a una professoressa. L'intervista integrale di Corrado Premuda all'autrice.

di Corrado Premuda.

Tre bambini durante una lezione di calligrafia in una scuola di Breda, Paesi Bassi, nel 1957 (foto Archivi Alinari)

Il nuovo libro di Susanna Tamaro è un saggio dedicato al mondo della scuola. “Alzare lo sguardo. Il diritto di crescere, il dovere di educare” (Solferino) si presenta come una lunga lettera di risposta a una professoressa di un istituto tecnico che interpella la scrittrice triestina. Emergono così nel libro tutti i problemi e le difficoltà dell’istruzione in Italia, il rapporto tra insegnanti e ragazzi ma anche il bello che c’è nella scoperta e nello studio. Si tratta del primo saggio di Susanna Tamaro.

Perché si è decisa a scriverlo?

Mi interessava l’argomento scuola. Per il Corriere della Sera sto scrivendo molti articoli sull’educazione che vorrei raccogliere in un libro. Nel momento di affrontare la prefazione ho cominciato di fatto a scrivere questo saggio. Io ho iniziato coi libri per bambini, nasco in questo mondo e vedendo il peggioramento in cui versa la scuola mi sono sentita coinvolta. Lo spunto decisivo, poi, è stata la lettera della professoressa che ho ricevuto, lei è diventata la mia interlocutrice reale.

La scuola sembra sempre la nota dolente in Italia: riforme che si susseguono ad ogni cambio di governo, impostazioni didattiche che si smentiscono una con l’altra.

È così, e a questo si aggiungono una burocrazia folle che porta via tempo prezioso agli insegnanti, e i drastici tagli alla spesa per l’istruzione che in Italia sono costanti. Le riforme valgono e durano davvero poco e nessuno si ferma a ragionare sul fatto che il nostro paese è in fondo a tutte le classifiche in merito al sistema educativo. Io ho sempre avuto gli stessi insegnanti per cinque anni, mentre adesso, a causa di concorsi scellerati, il corpo docenti cambia di continuo, ognuno propone un metodo diverso e regna la confusione.

Nel saggio lei sostiene che il basso indice di lettura degli Italiani possa dipendere da una diseducazione letteraria che avviene a scuola. Come si potrebbe cambiare?

Scegliendo altri libri da far leggere, ad esempio. Io seguo una ragazzina che doveva recuperare dei crediti e scopro che a scuola le fanno leggere Sibilla Aleramo e ancora Verga. Bisogna proporre testi adatti ai ragazzi. È già difficile avvicinarli alla carta stampata. Invitata in una scuola, ho portato le poesie di Pierluigi Cappello e ai ragazzi sono piaciute molto. Anche i metodi vanno cambiati: l’analisi del testo fa detestare la lettura che dovrebbe essere un piacere già in giovane età.

Il ruolo dell’insegnante è stato ridimensionato negli ultimi anni e in particolare ha perso quell’autorevolezza che una volta la famiglia gli attribuiva.

Sono convinta che le famiglie dovrebbero tenersi davvero fuori dalle scuole perché gli insegnanti ormai sono terrorizzati da questa ingerenza illogica. Certo, una volta questo non accadeva, non ce n’era bisogno, perché la casa era la casa, cioè educazione e famiglia.

La tecnologia ha cambiato le cose e spesso anche il rapporto studenti-insegnanti: molti ragazzi, nativi digitali, pensano di maneggiare i segreti del web meglio degli adulti.

In realtà le loro competenze sono scarse e fragili: con le ricerche fatta a base di “copia e incolla” da Wikipedia non c’è più neanche lo sforzo di cercare. Per il nostro cervello studiare sul tablet è faticoso perché i nostri geni sono abituati da secoli alla carta, al contatto fisico con la scrittura. Sono critica sull’uso di smartphone e tablet in classe rispetto ai classici libri e alla scrittura a mano, questi ultimi sono un antidoto alle gravi dipendenze da schermo e da social network che le nuove generazioni sviluppano in modo allarmante.

Lei parla anche della scuola-azienda che prepara dei clienti più che degli allievi e che ha paura di bocciare.

La scuola non deve perdere di vista la sua missione che è quella di educare, non quella di informare. Un’educazione fondamentale perché riguarda anche il vivere civile. Se si trasforma in una pseudo azienda, la scuola non vale più niente, è finta, diventa una presa in giro che millanta offerte fantasiose perché, a differenza di ciò che accade in Germania, da noi i ragazzi spesso finiscono con un diploma che non serve a niente e che non li ha inseriti nel mondo del lavoro.

Di recente si è parlato della reintroduzione della materia educazione civica. Anni fa aveva fatto discutere la scelta di togliere la storia dell’arte da molte scuole. Qualcuno sostiene siano più importanti materie come informatica e matematica. Come stare a passo coi tempi senza dimenticare alcune fette del sapere?

Bisogna assolutamente mantenere tutte queste materie ma anche, e non è una cosa secondaria, rendersi conto che l’architettura serve anche alla matematica. Non possiamo diventare eruditi su tecnologia e scienza e perderci la bellezza.

Che tipo di allieva era lei?

Se andassi a scuola oggi sarei identificata come BES (Bisogno Educativo Speciale): studiavo tanto e andavo male. Mio fratello, che non studiava, andava bene. Io non capivo le domande e avevo il terrore della maestra e in seguito di diversi insegnanti. Ho studiato alle Magistrali perché volevo diventare maestra per evitare quei miei stessi dolori ad altri bambini.

I suoi insegnanti cosa le hanno lasciato, in positivo e in negativo?

Alle medie ho avuto un’insegnante che mi ha donato una visione del mondo e i valori della vita. Alle superiori, invece, ricordo diversi insegnanti sprezzanti che non ho amato affatto. Insegnare è un lavoro fondamentale ma delicato: più che con l’autorità e la derisione va svolto con un’apertura sui ragazzi e sul loro mondo.

Articolo comparso originariamente sul quotidiano Il Piccolo del 1 settembre 2019

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