
Di tutti i sassi nella scarpa, fu quello del lontano XX/XX/XXXX il più arduo da cui liberarmi. Potreste dire che sarebbe bastato sedersi, sollevare il piede e procedere alla rimozione del fastidio incuneatosi solo Dio sa come. Stolti! Avrei già provveduto da me e posto fine alla tortura. È una delle condanne peggiori al mondo, seconda solo all’avere per ospite a pranzo, ogni domenica, una suocera. Per comprendere quali furono le spiacevoli contingenze che crearono l’impiccio, e le circostanze per cui rimasi con una gamba sola, devo prima riassumervi il tragico incidente.
Quale ex maggiordomo al servizio di una nobildonna, venni invitato a una delle sue clamorose feste ricca di personaggi illustri; nonostante il mio licenziamento fosse da attribuirsi all’averle offeso, un dì, uno dei figli più viziati. La serata danzante era fissata per l’inizio dello stravagante periodo in cui alla gente sembra ancora più lecito oziare di giorno, far baldoria la notte, imbellettarsi, acquistare chincaglierie da abbinare ad abiti sgargianti, detto la primavera.
Ella mi sottolineava nel biglietto quanto le fosse insopportabile l’ennui prodotto dalla mia assenza tra le mura della villa. Colsi al volo l’occasione per vendicarmi del pargolo prediletto, che aveva preteso il mio licenziamento con la stessa facilità con cui, per la Settimana santa, cambiava le orchidee nella stanza da bagno. I capricci dell’erede non mi erano costati solo il posto, ma anche il matrimonio con la mia adorata Lilly. Per rendervi solo un decimo del suo splendore, sappiate che di Lilly avrei baciato pure le tonsille. Ricordo l’istante in cui la incontrai. Un colpo di fulmine impresso nel cuore da un saettante cupido. Lilly lavorava a una botticella di vino dell’osteria Il Limbo. Fasciata della sua traversina nera, aveva i capelli sempre puliti e raccolti in una treccia fulva tutta su un lato, affinché la chioma non finisse nel lieo. Sugli zigomi, svolazzando tra le gote, due sciami inesauribili di efelidi si incontravano sul nasino. Un bocciolo di rosa era impresso al posto della bocca. Era un turbine di sensi, una dea, il perdono di tutti i peccati che ispirava, prim’ancora di averli concessi. In essa trovavo la rima e la metafora, l’accordo e il semitono. Da tutta quella voluttà mi sarei fatto battezzare, benedire, martirizzare. Io ero un vile e mai le avrei rivolto parola. Fu lei a… Se quell’avvicinamento mi parve un miracolo, mi inflisse il trauma che ne fosse capace con tutti. Una volta sposata, presentai Lilly a Vossignoria, affinché l’assumesse come cameriera. Ma, l’infante, corruttibile cavaliere da strapazzo, oltre che possedere tutti i vizi peggiori, una morale da salotto e la peggiore acqua di colonia in cui affogarsi, era anche uno sciupafemmine. Fosse stato bello, almeno… Un buzzurro col naso a patata, basso – ma rialzato da tacchi –, con la pelle cadente; anche se, a detta di alcune donne della servitù, dotato di quel little spark of madness che rende gli scemi irresistibili al sesso debole. Ci cascò in pieno, la mia Lilly: ingenua crisalide, senza arte né parte.
Misi a punto il piano nei minimi particolari: l’impiastro non ne sarebbe uscito vivo. Io ne sarei uscito insospettato, facendo sì che tutto si ammantasse del sudario di un accident tragique. Escogitai tre modi e li avrei messi in atto uno dopo l’altro, nel caso in cui uno solo non fosse bastato, data la buona sorte del dongiovanni. E frutto della materia grigia che madre natura mi aveva elargito, ne aggiunsi un quarto. Una malevola risata rimbombò tra le mie meningi, mentre mi ammiravo nello specchio del sarto. Per primo, mi procurai una delle migliori gomene del porto. La corda mi fu garantita da uno degli scaricatori meno raccomandabili; sintomo della sua affidabilità era il suo occhio guercio che non nascondeva sotto una benda, nonché la capacità del losco di parlare con un coltello tra i denti. Giurò che la fune era stata di un contrabbandiere di tè, usata per impiccare i benpensanti che preferivano il caffè. Me lo giurò su suo padre, pur confessandomi di non sapere chi fosse.
«Quella pfune la ufano per pfare da canape al Palio di Pfiena, monamouv!»
Voleva dire milord, ma si sa come finiscono i dialoghi con un coltello tra i denti, o con le lingue che non padroneggiamo. Da una saccoccia scamosciata, per tagliare corto, tirai fuori del vil denaro e lo pagai.
Per il secondo stratagemma, recuperai un potente veleno, rivolgendomi a un celebre profumiere dei rioni alti, per l’impasto di un muffin da servire al donnaiolo. Si sa quanto i reggicoda amino diluire, nelle loro creazioni, sostanze potentissime e letali, in dosaggio innocuo. Terrò in riserbo il nome del profumiere, poiché un eccesso di clientela precipita sempre i prodotti di un artigiano nella mediocrità. Per gli ultimi due escamotage, ricorsi a un vecchio mercenario conosciuto durante il servizio militare di Sua Maestà. L’energumeno era un’oliata macchina da guerra. Incuteva timore a tal punto che non mi sarei mai permesso di chiedergli, seppur con educazione, le condizioni di salute della madre, col rischio d’essere frainteso e strozzato sul posto. Lo scovai tra le volute di fumo di una bettola: era riverso su un tavolaccio, ubriaco come un padre che festeggia la nascita del primo figlio maschio. Dopo mezz’ora di scrollamenti l’omaccione si riebbe e, al solo sentirmi pronunciare le parole vendicarsi e uccidere, si manifestò in lui l’euforia di un bracco.
«Quando?! E chi è che ammazziamo? Sì, ma a che ora?! cHi?!» diceva, senza nemmeno mettermi a fuoco. Con la stessa esuberanza, estrasse da una tasca un pugnale di peltro e una bomba nera lustra a miccia corta. Mi preoccupai di fargli tenere nascosti i ferrivecchi, prima che uno dei ficcanaso della cànova s’accorgesse delle trame e corresse dal bargello. Li conoscevo, quei miserabili: erano baccaglianti tutt’intorno, ma attenti, riservati come un gallo allo spuntare del sole.
«Vecchia canaglia senza attributi!» mi ghignò, con un vocione caramellato di rum, «t’ho capito sai, che non vuoi farti (hic!) vedere, vecchia volpe. Ma ricorda! Sono io, qui, il Capitano!» Il capitano di che cosa lo ignoravo. Finita la frase senza senso, l’ubriacone stramazzò. Era la mia giornata! Fuggii con gli armamenti, senza stavolta sborsare un soldo.
Il pomeriggio, al cannone delle tre ero presso la tenuta di Madame. Scelsi per lei i decori floreali, stilai il menu, selezionai un programma di danze provenienti dai recessi del mondo; organizzai un premio per la coppia più bella. E, per l’esclusività del convegno, stabilimmo che nessuno potesse accedervi se non vestito in maschera. La mia riverenza era una posa atta a spalmare su entrambe le fette del mio livore un mellifluo unguento lenitivo, a mettere in atto la vendetta contro il figlio. Di nascosto, approntai le imboscate. Il cappio scorsoio penzolava da una solida quercia, in un cono d’ombra del giardino d’inverno, nascosto tra le fitte fronde, al finecorsa di un’altalena. Far su e giù con la dondola era un passatempo che il mio rivale non si sarebbe risparmiato. Sopra il vassoio d’argento istoriato con le sue iniziali, avevo adagiato tre deliziosi babà: irresistibili, la prima delle delicatezze svettava in tutta la sua profusione di brandy e veleno in tripla dose. Ma ecco il tocco da maestro. Il costume che avrei indossato era un meraviglioso damasco con cappello a tricorno: nel manicotto destro, sotto il mantello, un meccanismo era in grado di far scattare l’affilatissimo pugnale. Se la malasorte mi fosse stata contro, sarei ricorso alla bomba a mano, camuffata da drink, sotto le mentite spoglie di ananas decorato da cannucce e ombrellini, come quelli serviti ai clienti di certe case di dubbia moralità. Lo avrei porto al signore di casa, come ai vecchi tempi; accesa la miccia, mi sarebbe bastato attendere la deflagrazione riparato dietro il gong del salone. Usai con la Gran Dama la scusa di un principio di febbre, provocato dalle puntigliose cure dell’allestimento. Madame se ne fece una ragione. Mi congedai, scusandomi per non partecipare al più memorabile dei bal masqué.

Tornai alle nove di sera in punto, mascherato. Al maggiordomo consegnai il mio biglietto da visita che mi annunciava come conte K. Kumbas. Tutto era perfetto. Dalla balconata pendevano, in cascate variopinte, clematidi, rampicanti, caprifogli e orchidee, avvinghiati tra loro in uno spettacolare gioco di architettura botanica. L’orchestra diffondeva musica in ogni angolo del palazzo; le voci concitate si interpolavano alle note; era tutto uno scintillio dosato, come gli innumerevoli ospiti in abiti veneziani burleschi, noleggiati per una fortuna. Sembrava d’essere capitati nel mezzo di un convegno del Grande Oriente Scozzese (se così si chiama quella congrega di svitati). Attorno a me, come ninfe, fanciulle procaci di inarrivabile venustà; poi, mogli irrimediabilmente trentenni, sfatte di parto, costrette in corpetti mozza respiro, che guardavano le prime con disprezzo e con una punta di paramnesia. Fui introdotto alla padrona. Sfoggiai il mio savoir-faire baciandole l’ingioiellata mano d’iguana.
«Mi è stato detto, misterioso conte, che provenite da un’affascinante repubblica al largo di Rimini. Dite la verità: siete un artista! Mmm… no! Un prestigiatore! No! Un bucaniere! Se non sapessi che siete arrivato stasera, presumerei di conoscervi da sempre! Vi conosco? Ah, se non avessi superato gli enta, io…» Facciamo pure gli anta, guardaroba sumero. Rincarai la dose di buone maniere: «Signora mia, viviamo in un’epoca in cui ci si vende pur di rendere omaggio alla beltà.» La vecchia non riuscì a nascondere un fremito, che scaricò tutto nel frullo del ventaglio.
«Conte, posso avere l’onore di presentarvi il mio amato erede: Marcel Rudolphe Colline Schaunard, barone di… oh, ma dov’è finito? Ha la capacità di dileguarsi di un amante colto in flagrante.»
Al di là della megera, come emerso da dietro una cortina di velluto, individuai l’impiastro. Ostentava una smorfia, configurata in un sorriso perenne: due svolazzi all’insù ai bordi della bocca che lo rendevano divertito anche nei momenti più inopportuni. Al guinzaglio teneva il suo fedele gatto nero, Caviglia, chiamato così per il pelo bianco sulla zampa destra anteriore. Io chiamavo la bestiola Canaglia, per quello che riusciva a combinare fingendosi maldestro. Il bafometto ispido era il cucciolo domestico di un lanzichenecco. Possedeva negli occhi la crudeltà di un serpente o di un banchiere olandese. Più che come animale da compagnia l’avrei voluto come capolavoro di un tassidermista. Ma dell’uomo di cui bramavo la morte, una caratteristica mi gelò più di tutte: era mascherato tale e quale a me. Se non fosse stato per quel ghigno, contrapposto al mio astio stampato in volto, ci saremmo potuti dire due gocce d’acqua. Mi fissava e io lo fissavo, come si fissano due primedonne a un gala con lo stesso abito, nell’intento di supporre che quell’abito stia bene a una sola di loro. Volsi lo sguardo all’altalena-tranello. Nooo! Un bimbo dai capelli a paggetto, lasciato girovagare solitario per la villa, stava per salire sul marchingegno, col rischio di mandare tutto a monte! Il piccolo indossava anch’egli un costume da Bàuta, sputato al mio! Si erano messi tutti d’accordo in casa per farmi il verso, dopo le lunghe vessazioni! Chi poteva aver saputo che sotto mentite spoglie c’ero io? Come una saetta, sfuggito al padrone, a impedire che il moccioso salisse sull’altalena ci pensò il gatto. Con la personalità di una pantera, balzò e prese il posto del bimbo. Il gatto mi guardò tronfio, dall’altalena, contraendosi nel collo.

Volsi lo sguardo altrove. Disgrazia! A ridosso del vassoio con il dolce adulterato, un uomo di inedita grassezza stava per avventarsi sui babà. Le palle dei suoi occhi, prima ancora del palato, erano attratte dalle profferte luculliane come è attratta la limatura di ferro da un magnete. Neanche a dirlo, pure l’obeso era ammantato del mio stesso travestimento, cucito su misura! Solo per miracolo i bottoni dorati non erano già schizzati dal pancione come tappi di champagne. Fu ancora il gatto a frapporsi tra l’ingordo e le mie architetture assassine. Dove posavo lo sguardo, il gatto si proiettava. Fantasticavo di avere il potere di comandarlo con la telepatia: la cruda realtà era che il disgraziato, come tutti i felini, si trovava sempre nei posti che più indispettiscono i viventi.
I primi due espedienti fuori uso, ma avendone altri due a disposizione e più mortali, mossi in direzione dell’acerrimo nemico. Il bellimbusto mi dava le spalle, perso in uno dei suoi approcci a una fanciulla dall’alta acconciatura. Era preda di una sola ossessione: il miglior premio della donna. Approfittare della sua distrazione sarebbe stato un gioco. Mi incamminai deciso e con un click sommesso dal tramestio feci scattare la lama sotto il mantello. Una sola falcata, la metà di un passo, la distanza da cui non si recede più da un bacio…
«Io sono… sono io, qui, il Capitano! E tu mi devi dei soldi, figlio di una gran bagascia!» Guardai verso il punto da cui giungeva la rauca verità. I presenti, all’unisono, voltarono la testa verso me, per capire a chi fossero indirizzati gli strali. Dalla balaustra del secondo piano, un energumeno di rara bruttezza, travestito da corsaro, stava per lanciarsi sul centro della sala, aggrappato al grande lampadario centrale. Il Capitano! urlai, quando riconobbi il ceffo. Com’era riuscito a rintracciarmi? Era tornato a riscuotere la parcella per quelle due anticaglie di quarta mano che gli avevo sottratto. Provai lo stesso a colpire il figliastro, ma… come provai ad affondare la lama: egli, come ombra riflessa in uno specchio, estrasse una lama identica; il pirata acrobata ci fu addosso, la femmina urlò che qualcuno stava ammazzando qualcun altro e, io e il vizioso, vibrammo le lame in perfetta sincronia; quel Giuda di gatto morse la mano al padrone, provai io il dolore, e i due coltelli volarono nella pancia del pirata; non so più chi travolse chi, e il Capitano finì contro un trumeau che si frantumò in mille pezzi. Nel capitombolo, scorsi il bimbo che penzolava dal cappio, e il grassone stecchito a terra che sputava bile. Mi accorsi che il Capitano aveva in mano l’ananasso esplosivo innescato, che mi aveva appena strappato dalla cintola.
«Tutti giù!» urlai, per le vite umane che di fronte a morte certa mi parvero riabilitate.
Spento ogni senso. Sordità e buio. Un fischio nella testa. Attorno, il cimitero di un campo da battaglia. Lame di luce oblique risaltavano il pandemonio e l’entropia del pulviscolo nell’aria. Non c’era un particolare della villa risparmiato; tutto travolto e spezzato, messo a soqquadro, brandello, memoria di se stesso. Ciò che rimaneva era sudicio e in ogni dove colavano moccoli di crema pasticciera. Schizzi di selz ravvivavano i due unici dipinti rimasti appesi. Quel che aveva reso splendida la villa per epoche di notti di bagordi, non c’era più. Dappertutto cadaveri, avvolti in abiti sbrindellati. Qualcuno si trascinava con un goccio di vita in corpo, restio a esalare l’ultimo respiro. Pareva un’orgia; a dirla tutta lo era, in una manifestazione sensuale e funebre. Non riuscivo a frenare un certo gusto macabro per una giarrettiera dorata su di una candida coscia – la gamba di una giovinetta senza vita –, sotto una birichina impunturata, sollevata dallo scoppio. Nonostante la calza fosse ridotta a un tendine floscio, la gamba non riportava lesioni che ne intaccassero la bellezza. La giarrettiera, su quell’eburneo, svettava come fosse di color caldo. Il corpo della giovane, senza linfa, era avvenente. Quattro vene bluastre, sotto la cute di un seno floridissimo spinto dal corsetto, mi eccitavano come un puledro. Se non un seno perfetto, qual è l’eterno femminino? Famiglia, genere, specie. La donna, la coscia, la giarrettiera. Eccola, la donna. Un desiderio sessuale puro e oggettivo innescato dalla sua schiettezza, ossessivo e compulsivo. Può il desiderio sessuale, che anela al possesso del corpo, non essere bramosia? Quel corpo era cadavere ma, per qualche strano motivo – non tanto più strano di quello per cui ci si innamora di un corpo vivo –, lo volevo, come si vuole una madonna scolpita nel marmo. Soffiai un bacio; coccolai la fantasia del suo ultimo anelito.

Io ero vivo. Senza gamba sinistra, ma vivo. Mi era stata portata via dal ginocchio in giù. Il brillamento mi aveva conferito un tizzone spento. Fu allora che mi accorsi di quel figlio di cortigiana, tra suola e pianta del piede sano. Quel detrito era una spina nel fianco, un clistere d’aceto caldo, il gomito del vicino a teatro; masticare un pugno di mandorle amare, un cliente in fila che acquista l’ultima fetta di torta che pregustavate nella vetrinetta; l’ultimo omnibus notturno che, fradici sotto la pioggia, vi sfreccia davanti. Così, con il sassolino nello stivale, non potevo che stare eretto sul perno doloroso. Quale destino mi era stato riservato? Che cosa avevo fatto di male? Presi l’ingresso principale, ma del vialetto che avevo percorso centinaia di volte non vi era più traccia. Avvolgendomi il piede, una fumosa pasta d’avorio era il calpestio di un panorama infinito, stanza vastissima e senza pareti, una volta color carta da zucchero illuminata a giorno; mi giungevano dall’orizzonte gli ultimi bagliori di un sole al tramonto. La coltre rasoterra mi impediva di vedere dove camminassi (ahi! il sassolino). Procedevo, pur con una gamba, nel mezzo della visione disorganica, che i miei sensi credevano la rappresentazione del paradiso – non era fonte di estasi come nelle Scritture, ma di strazio come nei compromessi domestici. Giunsi a un’esile colonna di marmo, ritta com’era la mia gamba. Il capitello in stile ionico recava incisa sull’abaco una testa di moro. Riconobbi i contorni e capii trattarsi di un’unica testa a due profili. Dalla bocca spalancata del profilo di destra partiva una frase che, aggirato il coronamento, terminava davanti la bocca del profilo di sinistra; cioè, una bocca emetteva l’eco dell’altra.
“Ē S’È CONTRARIO, NEL SAPER ESSER ‘E PAS LE NOIR ART’, NOCE SĒ”.
La babelica frase evocava lingue multiformi. Il mio francese appreso nei mercati di Casablanca era troppo elementare per decifrarla. I segni diacritici non mi aiutavano. Un inizio e una fine, od ogni lettera era l’inizio e la fine? Lessi ad alta voce, come un lettore che non ha altro interesse che conoscere la fine di un racconto: compitato l’arcano, emerse una casupola fra mezzo la nebbia. Infilai la porta gotica oltre cui si annusava fredda oscurità; si spalancò senza che la toccassi. Un vociare, alla fine di un cunicolo sudato di muffe, oltre il freddo bagliore di un pertugio finale. Smossi un panneggio traslucido fatto di lattice. Sbucai in una sala piastrellata di bianco. Tre individui, uno smilzo, un trippone e un piccoletto, con un camice alla tedesca, aleggiavano attorno a un tavolo oblungo. Il conciliabolo di professori, guantato e protetto dalla testa ai piedi come chirurghi (o macellai, dato il pietoso stato delle vesti insozzate di sangue), imperava su un corpo deposto à la Charlon. Orrore: era il mio corpo maciullato dallo scoppio! In grembo, rilassato come per una colazione sull’erba, un micio di pelo bianco con una zampina nera. Sonnecchiava. Che quel micio fosse proprio Caviglia, ma dai colori invertiti? Del gatto nero ero sicuro che di invertito, nel cervello tanto più, qualcosa c’era.
«Dottore, che ne pensa? Dica… è lei il luminare!»
«Il soggetto non ha speranze.» Ma come, pensavo io, sbigottito dalla prognosi. Ero sempre stato un tipo affabile, servile.
«Togliamogli almeno lo stivale; il sasso… lasciamolo riposare come si fa con ogni gentiluomo.»
«Non starà mica scherzando, allievo?! Si fa consumare da un’abietta compassione. Il referto parla chiaro: è imperdonabile per Santa Romana Chiesa; si figuri per Noi!»
Il piccoletto, che pareva più un adulto affetto da rachitismo, mosso a pietà dal cencio del mio cadavere, prendeva iniziative che l’uomo maturo non assecondava.
«Il rigore innanzi tutto! Come darle torto con un paziente di siffatta specie. Dico, ne avesse mantenuta una delle sue promesse… Ne avesse saldato uno dei suoi debiti,» l’obeso intervenne per mettere d’accordo maestro e allievo. I tre, pur non avendomi scorto, così mi pareva, voltarono le teste all’unisono, fissandomi di sguincio con occhi glauchi. I loro volti apparvero pertanto sopra di me, o io sotto di loro; utensili lerci e arrugginiti, più simili a strumenti di tortura che a ferri di chirurgia, stavano alla rinfusa su di un vassoio istoriato.
«Quindi, mi dica: è stato rinvenuto il corpo della moglie?»
«Sì, Dottore. Avvelenata, strangolata, pugnalata. Era irresistibile anche conciata a quel modo.»
«Suvvia, le paiono cose da dire?»

Dov’ero finito? Mia moglie? Qualcuno l’aveva uccisa? Sogno e memoria sono intrisi della stessa sostanza, ora mi raccapezzavo. Giunto al termine del jeu de massacre, mi sentivo in bilico, sospeso a un piede da terra. Che cos’era a reggermi, a tenermi sospeso, che mi faceva levitare come una bolla? Perché non avevo capito ancora, se ero vivo e stavo sognando, se ero morto, o nella peggiore confusione del ricordo, se ero morto e stavo sognando di vivere. Si dice: abbi fede, magari solo un minuto prima di morire. Che la mia anima se la prenda pure, Lucifero! Che me ne importava, ormai, di chiedere perdono? E io che biasimavo quell’omiciattolo dedito alla lussuria, che aveva fatto un sol boccone della mia donna; non lo biasimavo, lo invidiavo! Morto, come meglio non si poteva: nell’atto di assaggiare la più dolce delle fragranze. Mi doleva il collo e soffocavo. Qualcuno badi a togliermi quel maledetto sasso dallo stivale! Non vi basta avermi condannato al cappio? Ti saluto, mia dolce Lilly; è giunto il momento di dirci addio. Avrò la forza di rinunciare, stavolta? Non ti ho mai meritata, ma ho preteso che così fosse. Tu… perdonami. Gli altri vadano in malora, come ci finisco io. Te lo prometto: finalmente amerò te, invece che me.
«Quaggiù, stolto, a nessuno è concesso amare… E voi, là, piccoli vermi, aggiungetegli ancora un paio di sassi nello stivale!» Due ombre cornute, in ossequioso silenzio, obbedirono al loro signore.
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