di Terry Passanisi
Ho scoperto che c’è un ragno in casa mia: scuro, abominevole, spaventoso. Un ragno qualunque, ma vivo. Sta lì da tempo e nutro la speranza che prima o poi muoia di fame o di vecchiaia, che qualcuno lo faccia fuori con una scopa e lo ripulisca con tutta la dannata tana. Non vedo l’ora che i miei coinquilini tornino a casa per dirglielo. Mi provoca troppa repulsione – e una gran fifa – per farlo da solo. Che schifo! Se così non fosse, ecco, lo strapperei via in un colpo solo e potrei anche… eppure no, non ce la faccio. Resto paralizzato, i peli ritti e non posso avvicinarlo. Ma è vivo, l’essere immondo. So che è vivo perché mi osserva. Me ne accorgo: se ne sta lì a fissarmi con gli otto occhietti ambigui. Non so con esattezza come sono fatti gli occhi di un ragno, ovvio; non potrei disegnarveli; tantomeno i suoi. Si trattasse anche solo di suggestione, vi assicuro che, rossi, minuscoli e penetranti, li tiene inchiodati su di me; li distinguo bene, quando lo fisso e lui mi fissa. Posso dimenticarlo al massimo una decina di minuti. Poi, pur sforzando tutto me stesso, non mi trattengo e un’occhiata mi scappa. Per controllare – ehi, sei sempre lì? Non è che mi giochi brutti scherzi? Ed eccolo che si rannicchia, si contrae, assume una conformazione predatoria, diventa un tutt’uno con il centro della tela e inizia ad agitarsi, sollevando i tanti bulbi viscidi nella mia direzione. Passa le zampe anteriori sulla maschera mostruosa. Tasta la bava per capire se sia appiccicosa al punto giusto, affila le roride zanne. Io provo a dissimulare, a far finta di nulla; guardo per aria, faccio il disinvolto e recito (se solo sapessi fischiare) la parte di chi fischia quando fa finta di niente. E non deve venirmi granché, a vedere come il seviziatore tiene a fulminarmi con gli occhi crudeli.
È un ragno piccolo, insignificante, mica uno di quelli tropicali, velenosissimi, corazzati e immortali; né una vedova nera né un ragno dei cunicoli, tantomeno un lupo mannaro. Ma a me fa comunque una strizza del demonio: è come se fosse dieci volte più grosso, la sua tela nel piccolo angolo del salotto occupasse tutte e due le pareti per intero, le otto zampe (ma cos’è, ogni occhio tiene a bada una zampa, magari?), quelle diavole di possenti otto zampe, è come se fossero lunghe otto metri, e lui non aspettasse altro che saltarmi addosso per spezzarmi il collo. Se me lo ritrovassi alle spalle, sullo schienale della poltrona, da un momento all’altro sul tappeto a pochi centimetri, che mi zampetta incontro a tutta velocità, mi farebbe venire un infarto, ci rimarrei secco e nessuno in casa potrebbe aiutarmi. Ecco come mi ritroverebbero, Rodolfo e Anita, una volta tornati: così, esattamente nel punto in cui sono ora, al solito posto sul divano; supino, gli occhi sbarrati dal terrore, la testa riversa sul bracciolo, la lingua penzoloni e il cuore agghiacciato dal più terrificante degli agguati d’aracnide. Se ne sta lì, inebriato dal tramortente potere che ha su di me. Più che nero, livido. Peloso, gonfio d’inquietudine, fermo eppure tremolante, pronto a scatenare la rapida furia di un demone sulle sue prede inermi. I resti delle sue vittime: carcasse di pasti mummificati tra i fili collosi della sua architettura-trabocchetto. Me lo sogno la notte, di rimanerci intrappolato, di voltare la testa in cerca di una scappatoia, senza poter muovere nient’altro, e di ritrovarmi le sue enormi fauci pronte a calare su di me. Per i miei coinquilini impavidi deve trattarsi solo di una delle tante bazzecole da pulizie domestiche del fine settimana.
Mi rigiro, mi metto comodo, mi tiro addosso un cuscino così da coprire la faccia e non vederlo più. Sbircio, non resisto. Ecco che cambia posizione lui, mi fa il verso, mi canzona, apposta, mi mette i brividi. So quel che pensa: non ti do tregua, cacasotto, nemmeno un attimo, non avrai pace finché regnerò in questa casa. Ho la pelle d’oca, e rimanere nascosto sotto il cuscino peggiora le cose; non faccio altro che fantasticare realtà più angoscianti dei miei incubi e di quelle che, in effetti, potrebbero avverarsi. Il giorno peggiore, quello in cui sul serio stavo per morire di spavento, fu quando allungai l’occhio dal corridoio verso la ragnatela, da dietro l’angolo, poco prima di tornare in salotto, per assicurarmi che fosse sempre al suo posto. Orrore! La ragnatela non aveva più padrone! E, abbassando d’istinto lo sguardo verso un’ombra sulle mattonelle della cucina, lo vidi incedere come un fulmine verso il secchio dell’immondizia. Un mancamento, un fischio acuto nelle orecchie, vidi tutto nero. E se non avessi fatto ricorso a tutto il mio istinto di sopravvivenza per correre a nascondermi in camera, a quest’ora sarei già al camposanto con una bella lapide: “Qui giace il baldo giovane; cuore delicato, ma generosissimo; sono sempre i migliori a lasciarci; non ti dimenticheremo mai”. Maledetto sia quel ragno!
Un attimo! Sono le 18:30. Rodolfo e Anita dovrebbero essere già qui. Sento passi sulle scale, una chiave che s’infila nella toppa, ma… Dov’è finito il ragno? Dove-diavolo-è-finito-quello-schifo-di-un-ragno?! Sta galoppando da me? Mi bracca! Ce l’ho davanti? Ce l’ho di dietro? Oddio, è sul soffitto! È enorme! Ha sedici zampe, due teste, trentadue occhi, nove corpi, quattro bocche, otto lingue biforcute! Rodolfo, Anita, prendete la scopa perdio, salvatemi, fate qualcosa, presto!
«Ehilà! Siamo a casa! Lucky, su bello, siamo tornati!»
Attendo tutto tremante che mi trovino in camera, nascosto sotto le coperte. Un fremito sottopelle antico come i tempi, che non se ne andrà senza prima una lunghissima carezza, un biscotto, qualche crocchetta.
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