
Il 22 maggio sarà finalmente possibile acquistare l’album (CD e vinile) “Fabrizio De André & PFM. Il concerto ritrovato”. Lo scorso febbraio, era stato presentato nelle sale italiane un docu-film riferito a questo concerto: il successo riscosso nelle due sere di proiezione è stato tanto e i deandreiani hanno potuto riscoprire la magia, per quarant’anni ritenuta perduta, di una notte di note e parole a Genova in cui la poesia di De André e la carica rock della PFM hanno data vita a un’esperienza unica e irripetibile. Mi sono chiesta: quale occasione migliore per riascoltare l’intera discografia dell’immenso cantautore genovese? E così, ho intrapreso un viaggio, con punto di partenza la produzione degli anni Sessanta, quella in cui De André sperimenta modelli nuovi e insoliti per quegli anni, come quelli medievali, che concorreranno a regalargli il soprannome di “ultimo dei trovatori”. Questo mi ha molto incuriosita e ho voluto indagarne le ragioni, scoprendo analogie interessanti tra Faber e i trovatori, vissuti ben otto secoli prima.
Sicuramente, tra le motivazioni che hanno portato alla nascita di questo appellativo troviamo l’immensa sua abilità di far combaciare musica e parole, nonché la profondità dei versi, che hanno da sempre e per sempre caratterizzato l’attività del cantautore genovese. Erroneamente, noi siamo stati abituati ad approcciare i testi dei trovatori come se fossero solo una sequenza di versi, poesie incise su carta; in realtà la loro fruizione era assai diversa: avveniva per via orale, non attraverso la mera e semplice lettura dei componimenti, ma con un accompagnamento musicale. Non siamo, quindi, davanti a delle odi, ma a delle cansos: come in Fabrizio, si assiste a un’alchemica mescolanza di parole, note e accordi, in grado di rapire l’ascoltatore e trascinarlo nel racconto di una storia. La lirica trobadorica è spesso incentrata su un particolare tipo d’amore: l’amor cortese, quel sentimento platonico che rapisce i cavalieri, incendiando i loro sentimenti nei confronti di una dama a loro superiore, per avvicinare la quale sono costretti a intraprendere un processo di crescita e miglioramento personale. Questo è un tipo di eros che dura tutta una vita; anzi è proprio quello che rende l’innamorato vivo, permettendogli di esperire continuamente emozioni intense, in grado di avvolgerlo totalmente. E qui vengono in mente molte canzoni con cui De André ci prende per mano e ci accompagna a esplorare innamoramenti folli e intensi, al punto da poter, in alcuni casi, sfociare nella morte (“La ballata dell’amore cieco”).
Ebbene, l’amore non è il solo punto d’incontro. Nei primi anni della sua produzione, Fabrizio compose molte canzoni che richiamavano l’atmosfera medievale, sia per la scelta delle musiche, sia per i temi in esse trattati: pensiamo, ad esempio, a “Fila la lana” del 1965, Geordie del 1966 e, ultima ma non ultima, “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers”. In realtà, Faber non è solo nel narrarci le avventure di un re Carlo quanto mai umanizzato, ma ha accanto a sé un amico, nonché un maestro della comicità e della satira del secolo scorso: Paolo Villaggio. Dalla collaborazione scherzosa tra i due nasce una ballata fortemente goliardica, con protagonista Carlo Martello, descritto non come un re importantissimo per le sorti della storia europea, bensì come un uomo assai sensibile ai richiami della carne, colto in un suo momento di debolezza, che lo condurrà a coprirsi di ridicolo. Egli, infatti, sta rientrando in patria vittorioso dopo aver fermato l’avanzata degli arabi nella feroce e ben nota Battaglia di Poitiers (732). Incontra una fanciulla, di lignaggio inferiore al suo, ma che lo colpisce per la sua sensualità. Tenta un approccio, ma viene respinto, finché la ragazza non scopre di aver davanti a sé il suo re ed è, pertanto, costretta a cedere. Tuttavia, Carlo non è riuscito a far breccia nel cuore della giovane nemmeno rivelandole la sua identità: finito l’amplesso, lei si preoccuperà di fermare il suo amante occasionale per presentargli la parcella.
Anche in questo caso, i due grandi artisti italiani non hanno inventato nulla di nuovo: nella letteratura trobadorica era, infatti, ben noto un genere letterario-satirico chiamato “pastorale”, che raccoglieva, sotto questa definizione, i componimenti poetici, musicati e cantati, con forma dialogica, accomunati dal narrare di un amore non cortese, ma carnale, tra un cavaliere e una donna a lui spesso inferiore per ceto sociale di appartenenza. Queste composizioni sono presenti sin dalla prima generazione di trovatori; si pensi, ad esempio, a “L’autrier jost’una sebissa”, composta da Marcabru, trobador attivo tra 1130 e 1150 e di cui ci sono pervenute 43 testi, per lo più di carattere satirico. In questa sua opera, in particolare, troviamo tutti gli elementi tipici della “pastorela”: un cavaliere che esce dalla corte, attraversa una siepe, elemento di divisione dal mondo cortese, e, pertanto, si sente autorizzato a distanziarsi temporaneamente dalla fin’amor e a corteggiare una donna a lui inferiore, solo per soddisfare delle voglie carnali. La giovane, nonostante sia una semplice villana, risponde a tono alle avances del nobile, asserendo che non è corretto mischiare cortesia e villania, ed esprimendo la propria volontà di restare nella sua condizione sociale di partenza. Abbiamo, quindi, un corteggiamento che si distanzia da quello canonico dell’amore cortese, da quell’amore platonico e che innalza l’anima; abbiamo una figura femminile che non ha paura di esprimere il suo pensiero, nemmeno davanti a un interlocutore così tanto “superiore”, e, anzi, si spinge fino al punto di metterlo in ridicolo con parole taglienti; abbiamo una satira che svela gli aspetti più terreni dell’animo umano, anche in coloro che si pongono come superiori agli istinti carnali. Tutti elementi che ritroviamo, secoli dopo, nella canzone di Fabrizio, l’ultimo trovatore.
Un’ultima curiosità: il racconto dell’avventura amorosa di Carlo scandalizzò l’opinione pubblica italiana al punto che, nel 1965, questa canzone fu denunciata per offese alla morale. Dovremo aspettare il maggio del 1968 per avere un’assoluzione “perché il fatto non sussiste”. Forse che la vivace Italia dei primi anni Sessanta non era ancora pronta ad accettare allusioni e racconti provenienti dai momenti più bui del Medioevo.
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