da redazione

“La zona rossa” nasce dalla storia vera della malattia e della guarigione, dell’iniziale sconfitta e della vittoria finale nei confronti del virus dell’autore, Raffaele Castelli, dimenticato da una sanità che avrebbe dovuto prendersi cura di lui e che invece lo ha abbandonato. Lasciandolo solo davanti al giudizio degli eventi della pandemia nell’isolamento della sua casa: trasformata in una casa di cura privata e in un rifugio di scrittura privilegiato. Unica terapia la Tachipirina, i consigli del medico di famiglia e le videochiamate con affetti e amici. L’uomo e il virus. Senza pudore né moralismo, ma con durezza e comprensione. In un inno alla vita strozzato in una platea orizzontale e plurale. Dove l’altro, siamo sempre noi. Per non far cadere nell’oblio quel momento, quell’attimo in cui tutto poteva cambiare per poi, probabilmente, non cambiare nulla.
Prima della peste
Fossi femmina spruzzerei latte
nessun rito, ma spazio alla routine
la sopravvalutazione dei baci quelli di prima che ora non mi dai
talvolta siccità oppure pioggia
un vespaio d’insetti nel cilindro
dell’ospedale della mia casa
del ricordo del brulicare sordo
giù nella strada prima della peste.
Sto con me stesso, o senza me stesso
solo un fiore, la calma la muove
nell’attesa di chi mi sta cercando
nella distanza perfetta mi trovo
morto o vivo non fa differenza
se perdo il tempo ad attendere
che tutto cambi per farsi uguale
che un tratto lieve tracci il nuovo
con solo una luce al mio fianco.
Allora se proprio devo vivere
lasciatemi vocali stalattiti
e le consonanti acuminate
rivoli verdi sui suoi seni
e il ventre, sì, un poco stracciato
e tutte le debolezze intatte
e le perle, della nostra apnea
fatta di polmoni indeboliti
e cieli sotto sforzo. Inquinati.
Il vizio della caduta planare
Quarantacinquesimo farsi sera
all’uggia d’un tratto immaginato
dalla presenza di una persona
sul Parallelo dell’isolamento
geografico, fisico. Umano
fatto di quanta chimica contiene
quanto possono le scarne speranze
morderne e addentarne le spoglie.
Basta non toccare. Non respirare.
Non azzardarsi al sentir dolore.
A guardar bene scorgi vitalità
nei giovani ignari del domani
che dicono lingue senza frontiere
seduti a distanza di certezza:
il quarto stato della materia
la parte liquida del nostro sangue
o del suo fluire nel monitor
dell’impalpabile volubilità.
Quindi non toccarmi. Non respirarmi.
Sono l’avvento del tuo sapere.
Sono il tuo intelletto scemo
la sepsi della connessione certa
il guasto nella tunica griffata
la contaminazione del prodotto
la corruzione nella rotazione
l’infezione ronzante d’un insetto.
Il vizio della caduta planare.

Raffaele Castelli Cornacchia vive a Brescia dove fa l’insegnante. Ha scritto i monologhi teatrali Un esodo per gioco e Centocinquanta.
Ha pubblicato il romanzo breve Il pacco di Durante (Robin Edizioni, Roma, 2006); i libri per piccoli lettori Gli abitanti di Colle Bianconero (EdiGiò, Pavia, 2013) e Le chiocciole di Amemì (EdiGiò, Pavia, 2015) dei quali è anche illustratore. Per la poesia è autore della silloge Sul ponte sconfinato di Limey che dà il nome all’omonima antologia (Lampi di stampa, Milano, 2008) e ha pubblicato i libri A meno che (Ennepilibri, Imperia, 2008), Via Milano (Lampi di stampa, collana Festival curata da Valentino Ronchi, Milano, 2012) e L’alfabeto della crisi (Italic-PeQuod, Ancona, 2013).