
Trovandomi spesso a trattare tematiche LGBTQI+, o comunque considerate di matrice progressista, ho cercato di elaborare la mia posizione nei confronti del linguaggio inclusivo. E sottolineo che si tratta della mia posizione, senza addentrarmi in questioni tecniche. Mi riferisco in particolare all’uso dell’asterisco (*) o dello schwa (ə) nelle desinenze per evitare di ricorrere al maschile sovraesteso, ossia quella convenzione per cui se parlo “dei ragazzi della mia scuola”, mi sto riferendo sia ai maschi che alle femmine, mentre se parlo “delle ragazze”, mi sto riferendo unicamente alle femmine. La tesi originaria (come poi vedremo si è evoluta) alla base della contestazione del maschile sovraesteso è che questa regola grammaticale contribuisca a una visione androcentrica.
È una tesi che io condivido. Da uomo non credo neanche di poter comprendere appieno l’impatto che possa avere su una donna crescere con la consapevolezza di appartenere a una specie chiamata “l’uomo”. Se la nostra specie venisse definita “la donna”, e questa contenesse “la donna” e “l’uomo”, potrei non interiorizzare il convincimento di appartenere a una sottocategoria? Sposando questa tesi, quando parlo in pubblico distinguo i generi, con formule quali “buonasera a tutte e tutti”. Oppure utilizzo la parafrasi. Ma formule come quella nell’esempio non considerano un’altra problematica, ossia la divisione in due generi, che non necessariamente si adatta all’identità di una persona.
Piccolo inciso: le persone non binarie esistono, non sono un prodotto di fantasia della “teoria gender”, e sono sempre esistite. Ci sono moltissimi riferimenti in culture del passato. Ecco, quindi, l’evoluzione del pensiero alla base del linguaggio inclusivo. La desinenza in ə considera le persone non binarie e – obiettivo tutt’altro che marginale – ne ricorda l’esistenza. Pur condividendo la bontà del proposito, qui è però dove (oggi) mi fermo. E lo faccio per le seguenti ragioni:
1) Essendo dislessico, di fatto “ascolto” i contenuti (corposi) pubblicati online, con l’ausilio della riproduzione vocale. Strumento di cui non potrei fare a meno anche per la correzione dei miei testi. Come me, tante persone con lo stesso DSA, ma soprattutto le persone non vedenti (o gravemente ipovedenti). I sistemi – almeno per ora – non sanno come riprodurre lo schwa (o simili) e l’ascolto diventa estremamente complesso. Per farvi capire: quando qualcuno per riferirsi a bambine e bambini scrive l3 bambin3, chi utilizza sistemi di riproduzione vocale sente “elletre bambintre”. Lo dico con il cuore: non si capisce niente. Sarà che sono coinvolto, ma non voglio escludere chi ha difficoltà fisiologiche nella lettura (oltretutto per ragioni etiche, generando un cortocircuito).
2) Credo che lo ə sia anche un gesto politico, di cui per altro ne sposo il significato. In quanto tale, è volutamente disturbante: un pugno nell’occhio (o nell’orecchio) per ricordare la marginalizzazione delle donne e la cancellazione delle persone non binarie. Quello che però non mi convince è presentare un gesto politico come una naturale evoluzione della lingua. È la prima volta che in vita mia vedo introdotto nel linguaggio un segno/suono che da solo comunica le proprie posizioni politiche e mi preoccupa l’idea di ritrovarci a parlare una lingua diversa in base alle stesse. Lo vedo come l’ennesimo passo verso quella chiusura in bolle, in echo-chamber, che già impedisce il dialogo.
3) Temo che la ricerca di un linguaggio sempre più “corretto” sia potenzialmente infinita ed incompatibile con regole condivise e durature. Sì, non usando lo schwa discrimino le persone non binarie. Così come quando parlo senza usare il linguaggio dei segni discrimino le persone non udenti. Così come quando parlo in italiano discrimino chi non parla italiano. Ad un certo punto, per dare coerenza alla mia comunicazione, devo tracciare una linea. Io la traccio qui, un millimetro prima dello schwa.
Questo è tutto. Grazie a chi è arrivato fin qui. E poi chissà: magari tra un anno rileggerò questo post e avrò radicalmente cambiato idea. Lo lascio qui a testimonianza.
P.S.: quand’è che adottiamo l’inglese come seconda lingua nazionale? Oltre a portare vantaggi economici e culturali, avremmo finalmente questo benedetto neutro.