di Jenny Barbieri

Una nascita comune, simile a tante altre; eppure, stiamo parlando dell’evento che ha dato i natali a un uomo che di comune ha avuto ben poco: Gesù Cristo. Al di là del credo personale abbracciato da ciascuno di noi, Gesù è stato e continua a essere una figura emblematica e centrale della nostra cultura: la storia della sua vita ha unito genti anche geograficamente molto lontane, seguendo i suoi insegnamenti sono nate istituzioni e regole etiche e sociali che, ancora oggi, direttamente o indirettamente, influenzano i comportamenti di tutti noi. Eppure, spesso ci si dimentica di chi sia stato realmente Gesù Cristo, uomo come noi prima ancora che Figlio del divino.
Come tutti i figli degli uomini, il figlio di Giuseppe e Maria nacque sporco del sangue di sua madre, vischioso delle sue mucosità e soffrendo in silenzio.
Correva l’anno 1991 quando uno scrittore portoghese, futuro premio Nobel per la letteratura, pubblicò uno dei suoi massimi capolavori: stiamo parlando di José Saramago e del suo romanzo Il vangelo secondo Gesù Cristo. Sin dal titolo, capiamo di trovarci dinanzi a un punto di vista molto particolare: forse per la prima volta nella storia, il vangelo non viene tramandato da un testimone terzo che ci descrive gli episodi della vita di Gesù, ma da Gesù stesso. Una novità non da poco, se pensiamo a tutte le implicazioni che ne conseguono: il racconto in prima persona ci permette, infatti, di assistere alla crescita personale di Cristo, alla sua maturazione attraverso un percorso non immune da errori e da emozioni puramente terrene. Con Il vangelo e Saramago ci troviamo davanti a un vero e proprio romanzo di formazione: la storia più antica e conosciuta del mondo viene totalmente rielaborata, dando vita a una sorta di pièce teatrale dove il protagonista unico e incontrastato è la prima icona pop della storia, il figlio di Dio. Egli è venuto al mondo come tutti noi, ha vissuto un’infanzia ordinaria tra scuola e famiglia, ha sognato di seguire le orme di suo padre una volta cresciuto, ha scelto la via della ribellione appena diventato adolescente. Non solo: si è innamorato e, volenteroso di esplorare ogni aspetto di questo nuovo sentimento, si è legato anche carnalmente alla sua amata, una donna di mondo più grande di lui, Maria di Magdala.
Un riassunto alquanto limitato e limitante della trama sviluppata dallo scrittore, eppure già sufficiente per capire che ci muoviamo in uno spazio al limite della blasfemia. In realtà, Saramago sceglie volutamente di non riportare la storia biblica così come la conosciamo: ciò che gli interessa è riscrivere le vicende di Antico e Nuovo Testamento attraverso un forte spirito critico e razionale, altamente dissacratorio. Solo in questo modo è infatti possibile restituire a Gesù Cristo quella umanità che da secoli gli è stata sottratta, renderlo uno di noi, uomo comune alle prese con un destino prestabilito più grande di lui. Una visione atea da cui emerge, tuttavia, un forte interesse per un evento storico che, da più di duemila anni, sta influenzando il pensiero e il modo di vivere di tutti noi. Razionale e divino si mescolano continuamente nel romanzo, tentando di stabilire una gerarchia che, alla fine, risulta ancora instabile e vacua. Sin dalle prime righe, ad esempio, il lettore percepisce la presenza di una volontà onnipotente che partecipa al concepimento di un uomo in grado di cambiare le sorti del mondo intero, mentre il Gesù protagonista del romanzo scoprirà solo molto più avanti la sua filiazione divina. Per un ragazzo qualunque, cresciuto in una comune famiglia di Nazareth, questa non è certo una notizia semplice da accettare: e così, lui stesso fatica a rendersi conto del destino che lo attende e quasi non crede alle sue mani quando esse compiono i primi miracoli.
Soprattutto, riserva a Dio lo stesso atteggiamento di ribellione che aveva precedentemente indirizzato verso la sua famiglia terrena. Memorabili, a tal proposito, sono le pagine in cui Saramago racconta il confronto-scontro tra Dio, il diavolo e Gesù Cristo, in una barca solitaria, immersa nella nebbia e nel silenzio. Fuori dal tempo e dallo spazio (in meno di un capitolo si assiste al trascorrere di ben quaranta giorni) Gesù scopre il destino che attende non solo lui, ma tutti gli uomini: per dare vita a una religione nuova, più estesa e più influente, lui per primo e molti suoi seguaci moriranno perseguitati. Dio riassume pagine e pagine di storia, un elenco di morti dolorose e un susseguirsi di pagine buie, eventi realmente accaduti che ancora oggi dividono e fanno discutere, come le crociate e la santa inquisizione. Il racconto è tanto sconvolgente da spingere persino Lucifero a chiedere perdono a Dio, a pregarlo di riaccettarlo nel regno dei cieli in modo che agli uomini non sia più concesso di scegliere tra bene e male, e che non siano quindi necessarie tutte le morti e sofferenza future. Ma tutto questo non rientra nel piano di Dio e quindi il perdono non viene concesso. In una sorta di inattesa alleanza, anche Gesù Cristo si trova a sposare il pensiero espresso da Lucifero: perché accettare di portare a compimento un destino che causerà un numero assurdo di morti e sofferenze? Ed eccoci a uno dei passaggi cruciali dell’intero romanzo, che trova nel dialogo tra Padre e Figlio la sua espressione:
Moriranno a migliaia. A centinaia di migliaia, Moriranno centinaia di migliaia di uomini e donne, la terra si empirà di urla di dolore, di grida e rantoli di agonia, il fumo degli atei vivi offuscherà il sole, il loro grasso sfrigolerà sulle braci, il lusso sarà un tormento, e tutto avverrà per colpa mia, Non per colpa tua, ma per causa tua, Padre allontana da me questo calice, Che tu lo beva è la condizione per il mio potere e la tua gloria, Non desidero questa gloria, Ma io voglio questo potere.
Appare qui lampante la vera dicotomia che dona forza drammatica all’intera vicenda: a un Gesù uomo tra gli uomini, buono, a tratti ingenuo. Saramago contrappone un Dio deciso, assetato di potere e gloria, estremamente vendicativo, molto lontano dalla figura iconica del buon padre sempre pronto all’accoglienza. Un Padre a cui Cristo tenterà di opporsi persino con il suo ultimo, estremo gesto, facendosi crocifiggere come re dei Giudei e non come figlio di Dio. Ovviamente, ancora una volta, Saramago sceglie di attuare una forzatura storica o, per meglio dire, letteraria: sembra quasi che lo scrittore consideri la Bibbia come un’opera da cui attingere liberamente per costruirne una nuova. Nel suo vangelo, la storia è solo uno sfondo, un fondale scenografico davanti a cui prendono vita i personaggi di una fabula. Certo, i protagonisti (Dio, Gesù, Lucifero, la Vergine Maria, persino Maria Maddalena) sono illustri, ma il contesto permette di giocare con le loro vite, consentendo a Saramago di mostrarceli come persone comuni, con virtù, vizi e debolezze. In questo modo, la storia divina diventa un racconto fortemente umano come pochi ne esistono.
Leggendo questo romanzo, la mente approda subito a un concept album molto particolare della produzione di Fabrizio de André: La buona novella. Il cantautore genovese lo compone agli inizi degli anni Settanta, in un periodo in cui in Italia imperversa il dibattito politico, in anni di fuoco in cui la lotta studentesca la fa da padrona. Molti considerarono questo album come anacronistico, ma, come afferma lo stesso Fabrizio: Non avevano capito che in effetti la Buona Novella voleva essere un’allegoria – era un’allegoria – che si precisava nel paragone fra le istanze migliori e più sensate delle rivolte del ’68 e istanze, da un punto di vista spirituale sicuramente più elevate ma da un punto di vista etico sociale direi molto simili, che un signore 1969 anni prima aveva fatto contro gli abusi del potere, contro i soprusi dell’autorità, in nome di un egalitarismo e di una fratellanza universali. Si chiamava Gesù di Nazareth e secondo me è stato ed è rimasto il più grande rivoluzionario di tutti i tempi.
Come nel romanzo di Saramago, nelle canzoni di De André prendono vita una serie di personaggi, non più ritratti come pura incarnazione dello spirito divino, ma caratterizzati dal loro essere umani. Così, seguiamo la crescita di Maria, giovane fanciulla che, a soli tre anni, è costretta a lasciare i giochi fanciulleschi per entrare nel tempio e, appena dodicenne, viene scacciata anche da questa casa in quanto donna sviluppata e quindi impura (ma per i sacerdoti fu colpa il tuo maggio, la tua verginità che si tingeva di rosso). O ancora, siamo accanto a Giuseppe, vedovo che si trova a mantenere i suoi numerosi figli e Maria, una sposa bambina a cui, poeticamente, porta in dona una bambola, gesto che ci mette in risalto sia la giovane età della fanciulla, sia il sentimento di protezione che lei fa nascere nel futuro marito. Invece, Gesù resta qui sullo sfondo: la sua vita avanza grazie al racconto delle esperienze degli altri attori della storia biblica. Certo è che, grazie al loro essere persone comuni alle prese con un destino divino, noi ascoltatori abbiamo un’idea fortemente terrena e umana del Figlio di Dio, molto simile a quella che prende vita dalla penna di Saramago. Non è un caso che l’album di De André si apra con un brano corale intitolato Laudate Dominum (lodate Dio) per poi chiudersi, specularmente, con un altro brano corale dal titolo Laudate hominem (rendete lode all’uomo).
Leggere Il vangelo secondo Gesù Cristo di Saramago e ascoltare La Buona Novella di Fabrizio De André: compiere un viaggio dentro noi, grazie a due forme d’arte diverse tra loro, entrambe finalizzate a non donarci un’esperienza mistica, ma un’esplorazione estremamente terrena. Tra prosa e musica, due artisti di immenso livello ci conducono alla scoperta di quell’humanitas, intesa nel suo primo significato di comprensione e assistenza verso quelli che riconosciamo come nostri simili. E, vista la necessità che ancora oggi abbiamo di riscoprire questo valore, hanno sicuramente ragione Saramago e Faber quando tratteggiano Cristo come il più grande rivoluzionario di tutti i tempi, un uomo la cui vita appare sempre di un’attualità disarmante.