Cinema Letteratura

L’orrore, l’orrore

Da dove proviene il fascino dell’horror? Perché proviamo una forma di piacere a sporgerci sull’abisso? C’è una contraddizione in questa ambivalenza, che forse è la contraddizione di tutta l’arte.

di Fabrizio Coscia

Le mie prime letture letterarie, quelle che mi hanno immerso in un mondo parallelo e fatto appassionare alla letteratura, da preadolescente, sono state Lovecraft e Poe, e quindi il regno di Chtulhu e la casa Usher. In altre parole, il fascino della letteratura ha coinciso per me con l’orrore. Come mai? Forse perché la letteratura ha il potere di svelarci cosa si nasconde oltre le apparenze (lo stesso Lovecraft ha scritto che «tutta la vera arte dev’essere in qualche modo legata alla “verità”»). E ciò che si nasconde dietro le apparenze, è, il più delle volte, spaventoso o insensato, un incubo. Ma da dove proviene il fascino di questa scoperta? Il fascino dell’horror, intendo. Perché proviamo una forma di piacere a sporgerci sull’abisso? C’è una contraddizione in questa ambivalenza, che forse è la contraddizione di tutta l’arte: il paradosso cioè di farci provare piacere, una sorta di evasione dall’ordinario, nel mostrarci l’orrore dello straordinario.

Dietro le quinte della nostra esistenza c’è qualcosa di funesto, di sinistro. E scoprirlo ci fa venire le vertigini. Ma ci cattura anche, con il piacere del “brivido”. Un paradosso, apparentemente, ma su cui tutto il genere horror ha prosperato, soprattutto nel cinema (avevo sette anni quando uscì il film “L’esorcista”, che non potei vedere perché era vietato ai quattordici anni, ma ciò che si diceva del film, e il racconto che me ne fecero i miei genitori, mi ossessionò al punto che volli leggere il romanzo di William Blatty da cui era stato tratto il film, e fu un’esperienza allo stesso tempo terrificante ed esaltante, che perseguitò a lungo le mie notti e i momenti della giornata trascorsi da solo in casa).  

Poi è arrivato Kafka, e allora nessuna via di fuga è stata più possibile. L’arte mi si mostrava sotto tutt’altro aspetto. Niente paradossi, niente contraddizioni, niente più brividi, fascinazione, esaltazione adrenalinica. Con “La metamorfosi”, in effetti, il lettore non ha avuto più scampo: poiché l’orrore dello straordinario si è rovesciato nell’orrore dell’ordinario. Il paradosso si è trasformato in una forma di conoscenza. Lovecraft e Poe, al paragone, mi apparvero come due funamboli, due incantatori. Kafka, al contrario, lo scoprivo come il più realista degli scrittori: le sue parabole, i suoi racconti, mi mostravano ciò che solo i sogni avevano la capacità di mostrare: ovvero la trappola della vita, l’impossibilità della fuga, dell’evasione, poiché non esiste nulla al di fuori di ciò che ti circonda e ciò che ti circonda è semplicemente incomprensibile.


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