Racconti

La distruzione di Nino

"Lo rividi in un bar alle due di notte di qualche giorno dopo. Era brillo, ma allegro. Con lui c’era una ragazza che aveva conosciuto poco prima, si misero a pomiciare dopo pochi secondi dal mio arrivo. Gli altri amici presenti mi salutarono e ci mettemmo a chiacchierare mentre Nino e la tipa si palpavano e succhiavano un po’ ovunque. Sì, c’era rimasto un po’ male per Sara che se n’era andata, ma se n’era fatto una ragione, Nino era un tipo positivo."

di Giulio Iovine

Quando vidi Nino per la prima volta, qualcosa nel suo sguardo mi avvertì subito che c’era una punizione nell’aria. Aveva occhi sottili e ciglia lunghe da ragazza, il nasino alla francese un po’ all’insù, il facciotto tondo e un orecchino d’argento, la bocca sottile sempre aperta in un ghigno. Pareva che ti prendesse in giro anche quando ti chiedeva un bicchiere d’acqua. Era evidentemente in sovrappeso, ma in qualche modo suo personale, non brutto. Eravamo a casa di amici comuni quando mi fu presentato – ricordo ancora i colori del suo maglione, le Converse allacciate male, i jeans strappati. Era matricola a lettere classiche, mi dissero. Questo immediatamente mi placò: avrà una faccia da culo, ma almeno è un collega.

– E ti sta piacendo per ora?

– Mah, siamo solo a novembre.

E cominciò a rollarsi una sigaretta sul tavolo della cucina. Eravamo solo io e lui. Gli altri sparlottavano in salotto. Lo incalzai: – Devi essere molto motivato, per una laurea del genere, di questi tempi.

– Sicuramente ero molto motivato a scappare dalla Sicilia, replicò lui. – Poi non so. Sì, questa roba mi piaceva al liceo, ma chissà, magari dopo cambio idea.

– Questo è molto… improvvisato, risposi, in evidente imbarazzo.

– Possibile. Non sono il tipo da fare piani.

– Non è mica uno scherzo, cambiare facoltà a metà strada.

– È già tanto se uno si laurea.

Dovetti uscire dalla cucina per non essere costretto a rispondere. Lo ritrovai qualche mese dopo, sempre a casa di amici.

– E Lettere come sta andando?

– Ah ma io già sono a Biologia.

– Come?

– Ho cambiato corso.

– Come mai?

– Boh? Alla fine non mi interessava così tanto.

– Ma non potevi capirlo prima?

– Ma scusa, saranno fatti miei, e mi guardò con quel suo ghigno, rollandosi un’altra sigaretta. – Le cose le capisci quando le capisci e amen. Io poi francamente non ho ancora le idee chiare sul futuro. Mi piacerebbe fare qualcosa nel mondo, questo sì – e non penso che con lettere si possa fare. O non m’interessa provarci.

– Ok. E come cambieresti il mondo con questa laurea qui?

Mi aspettavo, che ne so, ricerca sulle staminali. Me la menò per mezz’ora con non so che programma di volontariato nelle piantagioni del Mato Grosso.

– Quella non è biologia, obiettai. – Quello lo posso fare anch’io, è volontariato.

– Whatever, rispose facendo spallucce, e se ne andò.

E tuttavia non fu quello il momento in cui detti retta al mio istinto e lo punii. Fu pochi mesi dopo, quando seppi che si era trasferito in Cile per fare un anno all’estero. Lo tampinai su Facebook. Vedevo decine e decine di foto di lui in piazza di non so che città, manifestava, aveva un doppio orecchino, aveva pure perso qualche chilo, era sempre lì a fare aperitivo, metteva frasi in spagnolo prese da poeti sudamericani sconosciuti. C’era, credo, anche una fidanzata, una che lavorava lì ma veniva da New York. Le sue risposte ai messaggi degli amici cominciavano sempre con ciao ama, rega cioè non so, ma sì amore cioè Cile per sempre, eccetera.

Chiusi Facebook, aprii il mio cassetto nel comodino accanto al letto, tirai fuori il libro delle punizioni. Sfogliandolo nervosamente arrivai alle pagine libere. Presi la penna in mano, annotai sopra la colonna nome e cognome di Nino, e stetti un po’ a pensare a come punirlo. Non c’era bisogno di spezzarlo in due subito; bastava probabilmente un colpetto e avrebbe imparato a comportarsi meglio, con più criterio, insomma a essere felice – se proprio doveva – consapevolmente, non a casaccio. Scrissi:

Via dal Cile per sempre.

Pochi giorni dopo le foto su Facebook lo ritraevano all’aeroporto di Santiago. La situazione si era fatta complessa, gli accordi interuniversitari non tenevano bene, la crisi politica… fu costretto a tornare in Italia. Fine delle manifestazioni e degli aperitivi. Seppi anche che la fidanzata newyorchese era tornata a New York. Così, quando – poche sere dopo – lo rincontrai, ero tutto sommato convinto che avesse imparato la lezione. Entrato in casa di amici, lo scorsi subito seduto sul divano con altre due o tre persone e una ragazza in grembo, con cui ogni tanto si davano baci o piccoli morsi. Restai allibito. Appena riuscii a beccarlo da solo, attaccai bottone con una scusa e poi: – Ma da quando stai con Sara?

– Poche settimane, in realtà. È stato un colpo di fulmine, il giorno dopo che sono tornato in Italia.

– Perdonami, tu eri fidanzato in Cile?

– Certo, con Dawn. Siamo stati insieme un anno e mezzo. È stato molto brutto quando mi ha lasciato.

– E stai già con un’altra?

Mi ha guardato irritatissimo.

– Scusa, ma questi come sarebbero cazzi tuoi? Ah no, aspetta: non lo sono.

– Io credevo, proseguii imperterrito – che tu a questa Dawn ci tenessi.

– Ma ovvio che ci tenevo.

– Non si dimentica una storia di un anno in due settimane.

– Ma chi dimentica nulla, semplicemente uno va avanti come può…

– Sì, ma così pare che non ci sei stato male. Non abbastanza.

– Tu che cazzo ne sai?

– Te lo vedo in faccia. Non hai sofferto quanto dovevi.

– Primo, io soffro quanto e come cristo mi gira, senza rendere conto a te. Secondo, non dobbiamo stare male per forza tutti allo stesso modo.

– E passi. Ma star male, prima o poi sì. Nella vita ti tocca anche la tua dose di sofferenza.

– Se posso, evito.

– …prego?

– A me essere infelice non piace. Io credo molto nella vita.

– In che senso?

– Nel senso che voglio essere felice. Lo voglio davvero. Che c’è di strano? Non mi piace piangermi addosso. Non mi va di ammazzarmi per una storia finita male. Onestamente mi pare una sofferenza senza scopo.

– Soffrire ha sempre uno scopo. Purifica, nobilita.

– Ma smettila. Ormai non ci credono più neanche i cattolici a questa storia. E poi non vedo che tragedia sia mai capitata in questo caso. Mica è morto qualcuno. Una storia si chiude, pazienza. Ne comincerà un’altra. Mi spieghi perché cazzo ti interessa?

Non lo degnai di risposta. Non se la meritava. Tornai a casa di gran carriera. Presi fuori dal cassetto il libro dei conti, e sotto la prima annotazione, scrissi:

Si laurea ma non trova nessun lavoro stabile o soddisfacente.

Attesi con calma, come il serpente sotto la rosa. Seppi che si era laureato, era andato a vivere con la sua ragazza. La loro relazione era stabile, da Facebook vedevo un sacco di foto insieme, di anelli, di gite con gli amici. Nino sembrava davvero felice e ora aveva anche un piercing al labbro. Ma le cose, mi disse un suo amico meno di un anno dopo, non stavano andando bene: la ragazza lavorava, ma lui non riusciva a guadagnare una lira, e i suoi avevano dovuto aiutarlo. Non si capiva perché, con la laurea che aveva, non si trovasse niente – ma proprio niente – né in Italia né fuori. Comunicai anche io il mio dispiacere all’amico, e una volta a casa aggiunsi, sotto la nota del lavoro:

Fine irrevocabile della sua relazione.

Vediamo se questo stronzo è ancora convinto di avere il diritto ad essere sempre felice, pensai. Vediamo quanto riesce a pensare positivo dopo questo doppio colpo.

Lo rividi in un bar alle due di notte di qualche giorno dopo. Era brillo, ma allegro. Con lui c’era una ragazza che aveva conosciuto poco prima, si misero a pomiciare dopo pochi secondi dal mio arrivo. Gli altri amici presenti mi salutarono e ci mettemmo a chiacchierare mentre Nino e la tipa si palpavano e succhiavano un po’ ovunque. Sì, c’era rimasto un po’ male per Sara che se n’era andata, ma se n’era fatto una ragione, Nino era un tipo positivo. E poi aveva trovato un lavoro in una scuola, faceva il segretario. Certo, niente che c’entrasse con quello che aveva studiato ed era pure un contrattino precario, ma a un certo punto si era accontentato. Guardai gli amici di sottecchi, sorseggiando il mio Bombay Sapphire mentre loro finivano a parlare di tutt’altro. Logico, pensai. Non sono il lavoro o il sesso i punti deboli di Nino. Quelli prima o poi li trova e se li fa piacere. Sono gli amici, quello che devo colpire per fargli finalmente chinare la testa al grande principio regolatore dell’universo, la necessità del male. Lui è forte perché gli vogliono bene. Ma c’è una cosa che nessun amico accetterà mai di te – qualcosa che nessuno ti perdonerà mai. Oddio, forse qualche illuminato, ma i piccoli borghesi che frequentavamo noi non avrebbero mai capito, neanche in diecimila anni, una cosa dolce, sottile e scandalosa come quella che stavo per appioppare a Nino. Corsi a casa, ripresi il quaderno, e scrissi in fondo alla colonna una quarta voce:

Si innamora, riamato, di un ragazzo.

Ho conosciuto abbastanza etero per avere ormai imparato come pensano. Non sono in grado di processare il diverso da sé. Provano diffidenza, spesso disprezzo, in ogni caso un senso di lontananza, di estraneità. Non c’è confidenza con chi non è etero come te, non c’è affetto né stima, nessuna condivisione è possibile. Nessuno tra gli amici etero di Nino, soprattutto tra i maschi, lo avrebbe mai accettato dopo una cosa del genere. E lui avrebbe visto la profonda meschinità dei suoi amici, e sarebbe rimasto solo e disperato, alle prese con un cambiamento della sua vita che lui per primo avrebbe odiato. Forse sarei potuto giungere a fargli disprezzare se stesso. Mi premetti la lingua sui denti per calmarmi.

Ma quanta rabbia quando lo rividi, un mese dopo, nello stesso bar dell’ultima volta, con gli stessi amici dell’ultima volta, solo che era mano nella mano col suo fidanzato! Li salutai con finto calore e chiesi appena potei spiegazioni ai suoi amici.

– Mah, sì, devo dire che nessuno di noi se l’aspettava…

– Sì, vero, ma mi hanno detto che a volte succede, ti svegli una mattina e…

– Comunque oh, se Nino è contento…

– Sì, poi è sempre Nino alla fine, mica è un alieno.

– E comunque secondo me gli piace ancora un po’ la passera.

– Poi Gianfranco è un tipo simpatico, no?

– Sì, fa molto ridere, poi tifa Napoli e questo mi piace, lo dico sempre a Nino che se si metteva con uno juventino non gli parlavo più.

Niente. Non lo avevano allontanato, non lo schifavano, era tutto come prima, solo che al fianco di Nino c’era un ragazzo e non una ragazza. Ero allibito, disgustato. Come si permettevano quei sacchi di letame di essere ragionevoli, affettuosi, giusti? E Nino! Lo guardavo in tralice, mentre fingevo di parlare con i suoi amici. Lo vedevo tenere per mano Gianfranco, guardarsi negli occhi, pensare a quel nuovo amore che nasceva, a tutte le cose che vorresti fare insieme con questa persona meravigliosa che hai trovato e da cui non ti riesci a staccare. Nino che in tempo zero accetta la sua nuova sessualità e la abbraccia, fiero… orgoglioso!

– Credo debba ancora dirlo ai suoi.

– Vabbè ma dai, son brave persone, capiranno.

– Ma infatti, meglio anzi che si sia trovato bene con questo qua, c’è certa gente in giro. Vedi ad esempio Sara, la sua ex…

– Sì, lei mi è sempre stata un po’ sul culo… molto meglio Gianfranco.

Non riuscivo più a sopportarlo. Mi alzai di scatto, tornai a casa. L’hai voluto tu, pensai, edonista dei miei coglioni. Da questa non ti rialzi. Scrissi:

In galera per un anno.

E vediamo quanti amici ti restano quando esci.

Nino fu arrestato pochi giorni dopo: lo avevano beccato nel suo campo di marijuana, fuori città, mentre ne vendeva ad alcuni ragazzini (col fatto che non lavorava regolarmente da anni, s’era dovuto arrangiare). Di norma per una cosa del genere si resta in galera meno di un mese, ma ci furono complicazioni nel processo e altri fatti inspiegabili, e insomma ci rimase un anno. Andai a trovarlo persino io, naturalmente dopo un po’ che era dentro, per vedere come se la cavava. Mi accolse con fredda sorpresa – non eravamo intimi – ma a forza di gentilezza e di presenza, lo convinsi che in realtà gli volevo bene. Ne fu contento: in effetti non lo venivano a trovare in molti, forse per imbarazzo.

– Anche Gianfranco mi ha lasciato. Il che mi ha un po’ buttato giù. Ma tutto sommato…

Sembrò perdersi in un pensiero.

– Sì?, incalzai, speranzoso.

– Tutto sommato, continuò lui – non voglio deprimermi. Non voglio dire no alla vita, capisci?

Chiusi le mani a pugno, tanto strette da piantarmi le unghie nei palmi.

– C’è qui un prete, Don Enrico, continuò Nino – mi sta molto vicino e mi è di conforto. Figurati, io che sono agnostico. Però c’è una forza nelle sue parole… mi sento pieno di fiducia, di coraggio. Si può uscire anche da qui, in fondo. È questione di pochi mesi.

– Naturalmente, lo confortai – naturalmente.

Anche Dio congiurava a mio danno! Pur di non ammettere la necessità del male, Nino si era persino attaccato alla religione. Ma cosa dovevo fare con questo ostinato, con questa forza vitale che non riuscivo ad amputare, a deprimere definitivamente – che non voleva obbedirmi? E lì mi venne l’intuizione. Ero stato troppo indiretto, troppo laterale. Bisognava colpire i sensi. Attesi che uscisse di galera, presi il quaderno e scrissi:

Impotenza.

A questa non sarebbe sopravvissuto. Continuai a frequentare Nino saltuariamente, tenendolo monitorato. Non mi confessò mai di essere divenuto impotente. Ma mi accorgevo di molti piccoli dettagli, tipo che non frequentava più nessuno – né uomini né donne – e che aveva preso ad andare da uno psichiatra. Nel tempo libero si era buttato nel volontariato, come aveva sempre desiderato. Andò a stare a casa con i suoi genitori e trovò un mini-contratto come assistente sociale in una casa protetta. I ragazzi presero a volergli molto bene. E a giudicare da quello che vedevo, per quanto ora fosse più umile e il suo ghigno fosse quasi del tutto scomparso dalla sua faccia, non lo avevo ancora completamente umiliato. Il fatto di saperci fare con i sofferenti gli dava, paradossalmente, una insopportabile fiducia in se stesso e nel fatto che la vita vale sempre la pena di essere vissuta, anche quando ti è morto il cazzo.

Fu dopo l’ennesima birra che ci prendemmo (eravamo diventati amici, perché dovevo tenerlo d’occhio), dopo averlo sentito confessare che stava ‘bene’, che aveva ‘trovato il suo posto’, che c’erano delle ‘difficoltà’ in ambito sessuale ma che ‘non aveva voglia di farne una tragedia’, che mi rassegnai a colpire ancora più forte. Scrissi sul mio quaderno:

Ittiosi.

Andai a trovarlo poche settimane dopo. Non dormivo più la notte per la rabbia, per questo Nino che non voleva soffrire, che – peggio ancora – non riconosceva la necessità della sofferenza. Questa volta avevo il libricino nella mia borsa. Ero pronto a colpire ancora più selvaggiamente al minimo preavviso.

Mi accolse sua madre in lacrime. I dermatologi erano appena passati e non ci avevano capito niente. Una tremenda ittiosi, improvvisa e incurabile, nel giro di poche ore aveva prodotto cheratina abbastanza per non so quanti corni di rinoceronte e la sua pelle si era ridotta a un’unica grande crosta durissima, come scaglie di pesce. Bisognava medicarlo spesso e soffriva molto. Il padre era scappato non si sa dove. Davanti alla sua porta chiusa, bussai e chiesi se potevo entrare. Mi disse che sì, potevo: entrai in silenzio nella sua stanza, quasi completamente buia. Nino era sul suo letto, accanto a un ventilatore in funzione, e non so quante garze usate buttate per terra. Era nudo. Non aveva più un pelo sul corpo, solo croste dure e marroni, e macchie. Aveva perso anche i capelli.

– Ciao. Grazie di essere passato.

– Figurati, Nino. Come stai?

– Eh.

Parlammo una mezz’oretta, poi fu il momento delle sue medicine e dell’idratazione della pelle, e dovetti andare via. Ebbi la sincera soddisfazione di vederlo veramente giù di corda. Quella notte finalmente dormii. Avevo vinto. Nino era sconfitto. Nino ammetteva che la sofferenza era inevitabile. Che non si può restare felici davanti a tutto. Tornai a trovarlo altre volte, per sincerarmi che il campo fosse sgombro e l’avversario definitivamente convinto. Ma mi aspettava un’amara sorpresa: prima di me era passato don Enrico Grazzini, il prete che Nino aveva conosciuto in galera. Feci in tempo a incontrarlo sul pianerottolo, ci salutammo; mi avvisò che Nino era solo in casa (la madre era uscita per una commissione), e se per favore rimanevo io finché lei non tornava. Lo rassicurai, ed entrai nuovamente nella camera oscura dove Nino giaceva. Gli era tornato il ghigno di un tempo.

– Di che avete parlato, con il don?

– Ah, mille cose. Sa un sacco di storie divertenti. Dopo un po’ non sono riuscito a trattenermi e ho persino riso.

– Veramente.

– Sì. Ne avevo bisogno. Non ridevo da mesi.

Sospirò.

– Comunque sono stato di nuovo in ospedale. Il prossimo mese cominciamo la terapia genetica.

– Davvero?

– Sì. Dicono che ci sono speranze. E poi sostituiranno pezzi di pelle malata con pelle cresciuta con le staminali. Una cosa fichissima, all’avanguardia. Mi dovranno portare in Nuova Zelanda. Mi dispiacerà non riceverti più in casa.

E mi sorrise. Lo avrei ammazzato lì. Ancora speranze?

Tirai fuori il quaderno.

– Adesso ti insegno io.

– In che senso?

Uscii dalla stanza. Scrissi:

Dolore intenso ed incessante. Non sviene

Rientrai. Cinque secondi dopo, Nino cominciò ad urlare. Si contorceva nel letto, provò ad alzarsi, si rimise seduto, si sdraiò, si contorse. Un dolore terrificante lo percorreva da capo a piedi, una tortura lenta e continua. Non riusciva a passare. Finsi di preoccuparmi, gli diedi tutto quello che aveva in casa – Brufen, tachipirina, Xanax, Voltaren, morfina, tutto. Non ci fu effetto. Nino non aveva un attimo di tregua. Dopo una mezz’oretta lanciai il siluro.

– Soffri molto?

– È insopportabile, urlò lui.

– Hai visto?

– Visto cosa?

– Non puoi essere sempre felice.

Ci mise un po’, nelle agonie in cui era, a capire quello che avevo detto. Gli mancò la lucidità di rispondermi e continuò a contorcersi. Temetti di essermi dato la zappa sui piedi: mi serviva una ritrattazione lucida, meditata. Intanto avevo chiamato l’ambulanza: ne sentii le sirene per la strada. Feci appena in tempo a scrivere sul quaderno:

Così per tutta la vita.

Poi nascosi il quaderno, aiutai gli infermieri a trasportare Nino sulla barella e poi in ospedale mentre si contorceva, gli tenni la mano mentre provavano con non so quali narcotici a farlo star meglio. I farmaci migliorarono un po’ la situazione, ma per poco. Tornò a stare da cani nel giro di qualche ora. Naturalmente andai a trovarlo spesso dove l’avevano ricoverato. Gli dovettero fare parecchi esami e vidi decine di luminari al suo capezzale; ma nessuno riuscì a cavarci un ragno dal buco. Anche la semplice conversazione con Nino, per via del dolore, era quasi impossibile. Un giorno, approfittando di un momento in cui era solo, provai un attacco diretto.

– Nino, vuoi morire?

Non rispose, continuò a lamentarsi. Poi ad un certo punto, guardandomi con gli occhi pieni di lacrime:

– Morire?

– Sì. Vedi che non c’è più speranza. La tua vita è un inferno. Vuoi morire?

Qualcosa gli brillò negli occhi.

– Ma che cazzo dici. No. Non è giusto. Non voglio morire.

Mi salì un odio inestinguibile in gola. Nino ruppe in un pianto dirotto. Tra un singhiozzo e l’altro urlava ancora più forte. Ogni fibra del suo corpo era accecata dalla sofferenza. Attesi ancora qualche giorno; tornai a trovarlo, avvicinandomi al suo povero letto. Mi riconobbe a fatica, il cervello torturato dal cortocircuito.

– Fallo smettere, gorgogliò. Finsi di non capire.

– Cosa, Nino?

– Fai smettere questa cosa! Non resisto più. Uccidimi.

– E come faccio?

– Cazzo ne so, una siringa piena d’aria nelle vene, una botta in testa, portami sul balcone che mi butto, qualsiasi cosa ma fallo smettere.

Finalmente! Provai a deriderlo un po’: – Non saprei, Nino. Non credo nella sofferenza. Penso anzi che la vita…

Nino rispose con un urlo. E poi: – Fallo smettere, fallo smettere, ammazzami.

Questa volta la fitta di dolore fu così forte che Nino cadde dal suo lettino. Fu subito soccorso dagli infermieri che sentirono le sue grida. Nel vederlo contorcersi sul pavimento, urlando fino a spaccarsi la gola, capii che finalmente lo avevo sconfitto. Aveva detto no alla vita. Ora conosceva e accettava la sofferenza necessaria. Non aveva più il suo ghigno sulla faccia. Uscii dall’ospedale, finalmente placato. Nel mio cervello c’era il vuoto – la mia vittoria aveva ripulito tutto. Non mi restava che una serena indifferenza.


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