Letteratura Società

“Nemesi” di Philip Roth: in attesa di catarsi

di Benedetta Berio

Philip Roth

Quando è stato dichiarato il lockdown, mi sono ritrovata a stilare la lista dei titoli da leggere o rileggere “ai tempi del Coronavirus” (inizio a detestare quest’espressione): l’ormai inflazionato Decameron, Cecità, La peste, Diceria dell’untore, La maschera della morte rossa e Nemesi di Philip Roth. Quest’ultimo viene citato poco rispetto agli altri libri da quarantena eppure è forse uno dei romanzi che può toccarci più da vicino, che più si avvicina alle nostre inquietudini.

Quando l’ho letto per la prima volta, mi sono concentrata quasi esclusivamente sul destino del protagonista. Nell’estate del 1944, mentre imperversa la Seconda guerra mondiale, Bucky Cantor, un animatore di campo giochi, si ritrova ad affrontare un altro tipo di conflitto: un’epidemia di poliomielite imperversa nella sua città, Newark. Il destino del giovane è già racchiuso nel titolo, nella parola Nemesi: espiazione fatale di una colpa, di una colpa che sembra essersi tramandata di padre in figlio.

Ho finito il romanzo nel corso di una giornata, col fiato sospeso, aspettando di vedersi compiere la tragedia annunciata di Bucky: di pagina in pagina, il pendolo del destino si abbassava sulla testa di questo ragazzo troppo severo con se stesso. La polio è rimasta sullo sfondo: un mostro sì, ma ormai sconfitto, dimenticato. Come Neil Gaiman e Terry Pratchett, ho commesso un errore di valutazione, ho rimosso Pestilenza dall’equazione: Inquinamento mi sembrava una minaccia decisamente più reale. Ho peccato di ingenuità: Inquinamento e Pestilenza possono andare tranquillamente a braccetto.

Oggi il mio sguardo non si sofferma più su Bucky: la sua tragedia si è già consumata. Oggi, a catturare, inevitabilmente, la mia attenzione è la descrizione dell’epidemia: a tratti, ho quasi l’impressione che Roth stia parlando del nostro presente. La polio, così come il Covid-19, si insinua a tradimento nella quotidianità, sconvolgendola per sempre: è un fantasma che può colpire chiunque, all’improvviso. Una malattia estremamente contagiosa che può venire trasmessa ai sani attraverso la mera prossimità fisica con chi è già infetto.

La polio si accanisce sui bambini, mentre il Coronavirus miete vittime principalmente tra gli anziani. Nessuno però può dirsi davvero al sicuro. Il decorso di entrambe le malattie è imprevedibile, dipende da paziente a paziente: nel peggiore dei casi, le vie respiratorie vengono compromesse e ci si ritrova a dipendere da un polmone d’acciaio o da un respiratore. La polio manda in frantumi la promessa di un’estate serena, all’insegna di spensierati giochi all’aperto. Il Covid-19 congela incassi e speranze, spazzando via la speranza di rinascita che la primavera porta con sé. La Newark di Roth è sin troppo vicina all’Italia di queste ultime settimane. L’unico suono che rompe il silenzio fuori dalla finestra, la quiete solo apparente di una città irreale, è quello delle sirene delle ambulanze. La marea dell’ansia filtra dalle imposte, si riversa nelle strade vuote e sale, a mano a mano che si avvicina l’appuntamento quotidiano con il bollettino:

“[…] l’impatto di quei numeri era sconfortante, terrificante e defatigante. Perché quelli non erano i numeri impersonali che si era abituati ad ascoltare alla radio o a leggere al giornale, i numeri che servivano a localizzare una casa, registrare l’età di una persona o stabilire il prezzo di un paio di scarpe. Erano gli spaventosi numeri che certificavano l’avanzata di un’orribile malattia e che, nelle sedici circoscrizioni di Newark, equivalevano ai numeri dei morti, feriti e dispersi della vera guerra. Perché anche quella era una vera guerra.”

Lo stesso bisogno di capire cosa si può o non si può fare per cercare di arginare il contagio. Gli stessi dubbi: cosa può restare aperto, cosa no? L’ombra dell’untore che si allunga sugli altri, quando, in realtà, l’untore potresti essere tu stesso, anche se ancora non lo sai: Roth mi sembra quasi un cantore ante-litteram del distanziamento sociale. Inizio a confondere realtà e finzione. Come gli abitanti di Newark, anche noi siamo alle prese con un nemico insidioso, quasi del tutto sconosciuto. Nemesi non può regalarci la tanto sospirata catarsi, perché siamo ancora nel mezzo della battaglia: siamo ancora alla ricerca di un vaccino capace di scacciare il fantasma che aleggia tra noi. Però la lettura può aiutarci almeno un po’: può darci una mano a fare i conti con quel groviglio nero che ci portiamo dentro in questi giorni.

Philip Roth ci ha lasciato un esempio a cui guardare, un personaggio che può indicarci la via d’uscita dal tunnel: Alan Michaels. Alan ci insegna che una tragedia sociale, come quella che stiamo attraversando, non deve necessariamente trasformarsi in una serie di tragedie personali della durata di una vita: servono coraggio, intelligenza, auto-consapevolezza e persino una certa dose d’ironia, per riuscire a lottare col destino. Servirebbe la guida di uomini che possiedono tutte queste qualità, ma Roth ci ha lasciati: abbiamo solo la luce dei suoi romanzi a indicarci la via.

Se vogliamo che tutto torni come prima, anzi, se vogliamo costruirci un futuro migliore (le cose non andavano poi così bene prima), dobbiamo essere disposti a percorrere, con uno zaino pieno di libri in spalla, una strada in salita. Sarebbe bello se questa rinascita, catarsi o primavera che dir si voglia, prendesse l’avvio proprio dalla cultura.


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