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Trilogia della catastrofe, prontuario plurale sull’inevitabile collasso del mondo

"Ci aspetta un’epoca in cui l’Umanità dovrà lottare contro se stessa, modificando il proprio stile di vita, mettendo costantemente all’ordine del giorno, nell’agenda politica, la questione ambientale e contrastando l’azione deleteria della minoranza ricca del pianeta, responsabile della maggioranza dei danni."

di Andrea Bricchi

È da poco uscito per effequ un libro singolare, Trilogia della catastrofe, che ibrida la forma saggio con la narrazione. Singolare, ma anche plurale, essendo uno e trino: gli autori, infatti, sono Emmanuela Carbé, Jacopo La Forgia e Francesco D’Isa, tutti, benché giovani, con qualche pubblicazione alle spalle. A ciascuno dei tre, rispettivamente, spetta nell’opera il compito di declinare un diverso significato di ‘catastrofe’: come morfogenesi e interruzione di un equilibrio (L’inizio degli inizi), come grave sciagura che colpisce una comunità o un sistema (Costruire il risveglio) e come soluzione luttuosa di un dramma (Gestire la morte).

Il testo di Carbé, molto originale, prende l’avvio da una lettura alquanto critica del contemporaneo: la società attuale risulta appiattita sul presente, sulle app che ci possiedono, sul continuo flusso di informazioni e status da scrollare, a giudicare dal suo vertiginoso incipit, che ricorda certi stream of consciousness ipercinetici e pop alla Irvine Welsh. L’età contemporanea, peraltro, viene fatta cominciare per convenzione da una certa scuola storiografica, con il Congresso di Vienna, ed è proprio su quest’evento storico che si concentra la scrittrice, che per assurdo lo sostituisce al Big Bang nell’identico ruolo di evento catastrofico primigenio. Il punto è che non (si) sa abbastanza sull’inizio di tutto; inizio che, d’altronde, non si riesce a delineare mentalmente nemmeno alla lontana. La memoria inoltre è difettosa. Non ci si ricorda bene nemmeno di quanto successoci vent’anni fa: come si può concepire qualcosa di remoto come il Big Bang?

Carbé, comunque, gioca sull’irricevibile ipotesi che tutto sia stato generato nel corso della lunga e cruciale conferenza del 1815. La divertita narrazione fantastorica (o fantascientifica) si porta avanti, fra Borges e Calvino, per diverse pagine, fino a quando l’autrice non si chiede se in realtà non siamo tutti altro che un’invenzione dell’autore delle Cosmicomiche. Ma perché, piuttosto, non dovremmo essere altro che un pensiero di Pessoa? E se fossimo, invece, il sogno di una farfalla, sognata magari a sua volta da Zhuangzi?

Con La Forgia si passa all’accezione più comune di ‘catastrofe’, come cataclisma, improvvisa sciagura che colpisce una nazione, una città, una famiglia, etc. Ma cambia anche il registro: il testo è sotto forma di reportage ed è incentrato sull’uccisione, la tortura e la deportazione di centinaia di migliaia di persone in Indonesia nel 1965, soprattutto militanti o simpatizzanti comunisti. Si tratta di un episodio poco noto della storia del Novecento non solo agli stranieri, ma anche a moltissimi indonesiani, nella cui società viene tramandata una menzogna da una generazione all’altra, almeno finché qualcuno non decida infine, a proprio rischio e pericolo, di parlare. Il lavoro è meritorio innanzitutto in quanto divulga qualcosa di poco conosciuto e fa luce su una verità che si è cercato con tutti i mezzi, anche in Occidente, di insabbiare. Sul piano formale, tale reportage sarebbe risultato davvero completo solo con gli scatti di La Forgia, che è anche fotografo. Malgrado ciò, egli riesce a farci vedere, con perfetta padronanza dello stile, le persone incontrate e il loro dolore: un dolore nascosto dietro le apparenze in questo paese così lontano, che non è solo turismo e «non è tutto rose e fiori», come dichiara Baya, giovane sociologo che lo accompagna ad assistere a rituali esotici a cui difficilmente gli occidentali riescono ad avere accesso, come la cena in presenza di un morto. Qualcosa di non dissimile facevano gli antichi Egizi che, come riferisce Plutarco, «nel bel mezzo dei loro festini e delle loro gozzoviglie, facevano portare lo scheletro di un morto, perché servisse da ammonimento ai convitati». Cito da un suo grande chiosatore, Montaigne (Saggi I, XX), per il quale, come per Cicerone, filosofare è imparare a morire («cerchiamo di non avere niente così spesso in testa come la morte», ibid.)

Su questo tema su cui si sono soffermati innumerevoli pensatori, D’Isa, di formazione filosofo, nel suo saggio, che rappresenta un vero coronamento del trittico, ci insegna che dovremmo impararla a gestire, la morte, farci opportunamente i conti, non rimuoverne il pensiero, ma anzi pensarla anche e soprattutto in scala globale. Una fine di dimensioni catastrofiche appunto. Ma una fine per evitare la quale l’Umanità purtroppo non sta facendo abbastanza; non per cattiveria o egoismo, no, ma per noncuranza. Il paradosso è che l’essere vivente più intelligente al mondo è anche l’unico che sta attuando un’autodistruzione di massa. Dopotutto però – viene da chiedersi – una specie che non riesce nemmeno a mettersi d’accordo sulla necessità di controllare le nascite (una delle poche soluzioni sul piatto, apparentemente) perché dovrebbe sopravvivere? Ciò che è impossibile da accettare, tuttavia, è che si porti dietro, nella propria tomba di grandezza planetaria, miriadi di altre specie viventi.

D’Isa, mescolando riflessioni da filosofo morale ad acquisizioni scientifiche recenti sugli effetti disastrosi dei sistemi produttivi e gli stili di vita moderni, ci consegna un saggio che chiunque dovrebbe leggere per prendere coscienza di cosa stiamo facendo e di dove stiamo andando, come in un memento mori aggiornato al 2020. Potrà questa consapevolezza cambiare il mondo? Lo si vedrà nei prossimi anni: ci aspetta un’epoca in cui l’Umanità dovrà lottare contro se stessa, modificando il proprio stile di vita, mettendo costantemente all’ordine del giorno, nell’agenda politica, la questione ambientale e contrastando l’azione deleteria della minoranza ricca del pianeta, responsabile della maggioranza dei danni.

Abbiamo alternative? No. Infatti, a meno di non voler correre verso la ‘catastrofe’ nelle accezioni di soluzione luttuosa o disastro, occorrerà risalire al senso etimologico del termine e attuare un rovesciamento, un ribaltamento. A cominciare da quello delle nostre abitudini.

Gli autori:

Emmanuela Carbé (Verona, 1983) è borsista di ricerca al Centro Franco Fortini dell’Università di Siena, dove si occupa di progetti di Digital Humanities. Ha pubblicato i volumi Mio salmone domestico (Laterza 2013) e L’unico viaggio che ho fatto (minimum fax 2017).

Jacopo La Forgia (Roma, 1990), di formazione filosofica, è fotografo e scrittore. Pubblica reportage fotografici, saggi e racconti su quotidiani, riviste e antologie. Il suo romanzo d’esordio è Materia (effequ 2019).

Francesco D’Isa (Firenze, 1980), di formazione filosofo e artista visivo, espone in gallerie e centri d’arte contemporanea. Tra le sue pubblicazioni il graphic novel I. (Nottetempo, 2011), i romanzi Anna (effequ 2014), La Stanza di Therese (Tunué 2017) e alcuni saggi per Hoepli e Newton Compton. Direttore editoriale de «L’Indiscreto», scrive e disegna per varie riviste.


Andrea Bricchi, romano, insegna lettere. Autore di una silloge di prose poetiche dal titolo Il cofanetto orientale (Zona, 2015), scrive recensioni e note critiche per diverse riviste; autore di racconti pubblicati per “CrunchEd”, “Argo” e “Spore – Contaminazioni fantastiche”. Sta terminando la stesura del suo primo romanzo.

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