Letteratura Recensioni

Sylvia Plath: raccontare l’inferno dentro di sé

Come la stessa Sylvia Plath afferma nell'incipit della poesia Olmo: “Conosco il fondo, dice. / Lo conosco con la mia grossa radice: / è quello di cui tu hai paura. / Io non ne ho paura: ci sono stata.” Così, la campana di vetro si presenta come racconto autobiografico, la sola opera in prosa della grande poetessa americana.

di Jenny Barbieri

“Mi misi a elencare le cose che non sapevo fare. Prima di tutto cucinare. […] Un’altra cosa che non sapevo fare era stenografare. […] Come ballerina ero un disastro. Ero stonata. Mancavo totalmente di senso dell’equilibrio. […] Non sapevo né cavalcare né sciare, non sapevo parlare tedesco, né leggere l’ebraico né scrivere il cinese. Per la prima volta in vita mia […] mi sentì un’incapace totale. E il guaio era che lo ero sempre stata, solo che non mi ero mai fermata a pensarci”.

Estate 1953: un caldo afoso soffoca la dinamica New York, proprio mentre tivù e radio si rimbalzano la notizia della prossima esecuzione della condanna a morte di alcune presunte spie russe, Julius ed Ethel Rosenberg. La giovane Esther, originaria di Boston, arriva nella Grande Mela grazie a una borsa di studio: ha davanti a sé un mese di praticantato in una delle riviste più famose. Per lei, che sogna sin da bambina di fare la scrittrice, è un’occasione assai promettente, certamente da non perdere. Ma New York non è per tutti: o la divori o è lei, con la sua frenesia, a divorarti. Così Esther si trova ben presto coinvolta in una situazione da romanzo picaresco: la ragazza di periferia sta diventando grande, sta imparando cosa sia davvero la vita e il mondo del lavoro, è uscita allo scoperto senza più protezioni. Insomma, ha intrapreso un percorso di crescita individuale che la porterà a prendere o, meglio, perdere la consapevolezza che ha di sé. Esther è una rivoluzionaria: rifiuta di imparare stenografia perché a lei non interessa scrivere lettere sotto dettatura, ma dettarle; respinge il suo fidanzato storico, Buddy Willard, prototipo del perfetto Ragazzo Americano; non sopporta l’idea “che la donna debba avere una sola vita, casta, e l’uomo può invece condurre una doppia vita, una casta e l’altra no”. E ancora, lei sarà la sola di tutte le sue compagne di tirocinio a lasciare la grande Città con un bagaglio svuotato, non solo dei suoi sogni, ma anche dei suoi abiti, simbolicamente lasciati liberi di volare sopra i grattacieli di New York.

Rientrata a Boston, Esther scopre di non essere stata ammessa a un laboratorio estivo di scrittura poetica, ennesima incrinatura nella sua autostima ed ennesimo stop forzato ai suoi sogni per il futuro. Impossibile non sentirsi smarriti ora che il domani progettato sta svanendo giorno dopo giorno; difficile trovare la forza di reagire mentre si tenta di nascondersi agli sguardi giudicanti dei vicini che vivono in quelle case perfette, con le siepi tutte uguali, alte solo fino al busto per potersi sempre controllare a vicenda. Esther si trova immersa in una spirale depressiva di cui non vede la fine: dapprima non ha voglia di iniziare nessuna nuova attività, poi non è più solo una questione di volontà, ma non è più in grado di far nulla, non assimila ciò che legge, non riesce più a scrivere. I rapporti sociali, amicali o familiari che siano, sono ormai privi di interesse. Sarà l’incapacità di scrivere, intesa proprio come semplice gesto grafico, a far preoccupare la giovane al punto da chiedere aiuto a dei medici. Conosce così il dottor Gordon, titolare di una clinica dove cura del paziente e profitto economico sembrano quanto mai procedere di pari passo. Qualsiasi patologia è da lui curata attraverso l’elettroshock, una terapia molto in voga all’epoca, ma che riduce i malati a mere sagome, a “semplici manichini che si atteggiano a imitare la vita”. Il dottor Gordon sottoporrà Esther al trattamento solo una volta; tanto basta a scioccare la giovane e la madre e a spingerle a scegliere altre vie.

La spirale, tuttavia, ha ormai iniziato la sua discesa e appare inarrestabile: “Erano ventuno notti che non dormivo. Mi sembrava che la cosa più bella del mondo doveva essere l’ombra, le mille forme e i mille anfratti dell’ombra”. Incatenata in questa dicotomia tra vita e morte, Esther sceglie di porre fine alle sue sofferenze tentando il suicidio, considerato non come termine ultimo della vita, ma come rito simbolico di passaggio e liberazione dalle sofferenze, dall’esigenza di omologarsi a un’aberrante normalità. Dapprima prova la classica soluzione del taglio delle vene in un bagno caldo, ma ci vuole una dose troppo elevata di coraggio; poi decide di spingersi sul fondo del mare sino ad abbandonarsi per sempre nel buio degli abissi, ma le onde, quasi non volessero partecipare a questo gesto estremo, continuano a riportarla in superficie; in ultimo, tenta di intossicarsi con dei sonniferi, ma lo fa nascosta in un anfratto di casa, quasi come fosse una disperata ed estrema richiesta di aiuto. Ha inizio, così, la terza parte del romanzo, quella in cui Esther si avvia a ciò che per il mondo “normale” dovrebbe costituire un processo di riabilitazione. Ai suoi occhi tutto questo implica, invece, una ricerca d’identità, un’esplorazione intensa di se stessa e degli altri, un’iniziazione, anche artistica, tentata in proprio dopo il rifiuto all’accettazione e al compromesso.

Sylvia Plath riesce a raccontarci tutto questo in modo estremamente intenso e vero in quanto lo ha vissuto.  Come la stessa poetessa afferma nell’incipit della poesia Olmo: “Conosco il fondo, dice. / Lo conosco con la mia grossa radice: / è quello di cui tu hai paura. / Io non ne ho paura: ci sono stata.” La campana di vetro si presenta, dunque, come un racconto fortemente autobiografico, la sola opera in prosa di questa grande poetessa americana. In base alla testimonianza di Alfred Alvarez nel Dio selvaggio (Rizzoli,1975), alla vigilia della pubblicazione del romanzo la Plath “ne parlava con un certo imbarazzo, come di un lavoro da principiante che aveva dovuto scrivere per liberarsi del passato”. Forse anche per questo, oltre che per non essere identificata in toto da parte dei suoi lettori con il personaggio di Esther, l’autrice scelse di editare il romanzo sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas.

Tutta questa “reticenza” non si avverte affatto nella lettura dell’opera che, anzi, appare ben studiata e calibrata in ogni sua parte. Così, ad esempio, lo stile di scrittura si adatta incredibilmente alle varie fasi della vita di Esther, rendendo quanto raccontato ancora più immediato e sincero. I primi nove capitoli, quelli riconducibili alla tradizione picaresca che ha le sue radici in Huckleberry Finn di Mark Twain, vedono la giovane protagonista costantemente sottoposta a una serie di tentazioni, tutte risolte negativamente. A ciò, Sylvia fa corrispondere uno stile semplice, improntato allo slang studentesco, in cui, però, emergono elementi tipici del suo modus poetandi, come l’ironia e il simbolismo, quest’ultimo, in particolar modo, evidente nella descrizione di atti quasi rituali quali il bagno di purificazione o la liberazione dei vestiti, vere e proprie maschere di omologazione. Nelle due parti successive, al racconto sempre più drammaticamente serrato, l’autrice fa corrispondere uno stile più asciutto, meno ironico, più immediato, realistico e veritiero, dove la simbologia, soprattutto quella che si rifà alla dicotomia vita-morte, diventa sempre più presente, intensa ed elaborata.

Anche il titolo scelto dall’autrice rivela una grande attenzione ai dettagli: tradotto in italiano con La campana di vetro, noi ne percepiamo solo un’idea di isolamento quasi protettivo. In realtà, in inglese, The bell jar sottintende livelli interpretativi molto più profondi: il riferimento non è solo a una campana di vetro, ma richiama in modo abbastanza esplicito anche quelle campane trasparenti che vengono utilizzate nei laboratori di chimica e fisica. Il rimando al mondo medico, ma soprattutto al mondo degli esperimenti e, conseguentemente, dei pazienti trattati come cavie, appare quanto mai evidente. La stessa attenzione e cura del dettaglio dedicata a titolo e struttura dell’opera si riscontrano anche nella conclusione. Sylvia sceglie di adottare un finale aperto: non sappiamo con certezza se Esther riesce a uscire o meno dal manicomio, lo intuiamo solo da un suo saluto alle infermiere che, quel giorno, sono tutte vestite di un bianco candido, quasi volessero partecipare alla rinascita della ragazza, al suo reinserimento nel mondo. Similmente, nulla ci viene detto sul futuro della protagonista: riuscirà a realizzare il suo sogno? Diventerà una poetessa? Troverà la forza di opporsi a quell’omologazione che, già una volta, aveva rischiato di soffocarla? Tutte domande a cui non potremo mai rispondere. Tutti questi aspetti mi fanno ritenere che quello che la Plath ci regala non sia un romanzo scaturito solo dalla voglia di liberarsi di un’esperienza molto dolorosa del passato, ma una vera e propria opera letteraria, in cui veicola la sua voce, ancora una volta fuori dal coro. Con la sua sola pubblicazione in prosa, Sylvia sceglie di non andare dall’individuale all’universale, suo caratteristico processo poetico, ma di concentrarsi sul suo Io individuale, un Io forte, pregno di sofferenze ed esperienze, un Io che urla la sua disperazione e che, coraggiosamente, sceglie di non fingere, di non dimenticare.

A poco più di un mese dalla pubblicazione de La campana di vetro, Sylvia Plath si tolse la vita in preda all’ennesima crisi nevrotica e depressiva, forse causata dal tradimento e dal conseguente divorzio dal marito, il poeta Ted Hughes. Negli anni Settanta e Ottanta, la maggior parte della critica letteraria riguardante le sue opere è stata centrata sull’elemento biografico, leggendo versi e prosa come un biglietto di addio. Nel suo unico romanzo, però, Sylvia ci racconta di sé, entra ancora una volta nell’inferno della depressione e della follia e, ancora una volta, ne esce riabilitata. La Campana di vetro è una storia forte, intensa, piena di tenebre, ma anche piena di vita e di voglia di realizzare i propri sogni.

“«Ricominceremo da dove eravamo, Esther» aveva detto con il suo dolce sorriso da martire. «Faremo come se fosse stato soltanto un brutto sogno.» Un brutto sogno. Io ricordavo tutto. Forse l’oblio, come una neve gentile, avrebbe dovuto attutire e coprire tutto. Ma quelle cose facevano parte di me. Erano il mio paesaggio.”

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