
L’ultima guerra in Europa è stata quella dei Balcani, trent’anni fa. Una distanza giusta per poterla leggere. Che cosa ci ricordiamo di essa? Che fu una guerra complicata da capire, dove le vittime a volte facevano affari con gli aguzzini mentre i civili morivano nei modi peggiori, e le parti cambiavano sponda più volte. Ci ricordiamo l’assedio di Sarajevo, certo. Ma anche i campi di concentramento di Omarska e Keraterm e Trnopolje. Gli stupri, i bambini negli ospedali bombardati, le fosse comuni. Le trattative fallite e fatte fallire quando un accordo era ancora possibile. E poi il tribunale internazionale dell’Aia, pieno di buone intenzioni, preso in giro dagli stessi criminali che cercava di condannare, un tribunale che lavorò faticosamente tra mille ostacoli, che riuscì a portare i capi più in vista a giudizio, non tutti, ma lasciò una marea di criminali di medio grado a piede libero, a vivere nello stesso condominio delle vittime, come racconta Darko Cvijetić nel suo “L’ascensore di Prijedor”.
Un tribunale che non permise a un popolo di condannare i propri criminali, facendo di quel popolo intero un criminale, con i risultati che oggi vediamo. Un tribunale che non processò nessuno dei militari occidentali che pure, si conoscevano i nomi, non disdegnarono di partecipare alle violenze sulle donne, si girarono dall’altra parte quando gli interpreti chiedevano di salvare la propria famiglia dal genocidio che si preparava.
La guerra è sempre anche questo, inevitabilmente. Non esiste guerra che elimina il Male senza lasciare una lunga coda di tragedie e dolori che restano anche a guerra finita, con il loro legittimo potenziale d’odio. Nella guerra dei Balcani nessuno fu capace di leggere il dopo, il portato di guerra, cosa avrebbe cambiato. Nessuno provò a immaginare il futuro di quelle nazioni e di quei popoli. Trent’anni dopo, nei Balcani, la situazione (e un po’ ovunque ndr) non è serena.