di Fabrizio Coscia
Boris Pahor l’ho conosciuto una quindicina di anni fa, a Napoli, città a cui era molto legato, anche perché, come la sua Trieste, ha alle spalle una storia di occupazioni. Visitò il Cimitero delle Fontanelle, alla Sanità. Disse che era impossibile non pensare ai lager vedendo tutti quei teschi e quegli scheletri. Fu colpito, come tutti, dal culto che i napoletani dedicano ai morti in questo luogo. Per lui era un invito a tenere sempre viva la memoria. Pahor era ossessionato dalla memoria delle vittime del nazismo, inghiottite da quel disgraziato ventesimo secolo che «bruciava gli uomini come paglia marcia», disse quel giorno, a Napoli. In particolare pensava ai «sommersi» col triangolo rosso, quei milioni di prigionieri politici che lui non esitava a definire eroi, santi o martiri, morti per un’idea di Europa libera e che l’Europa di oggi troppo spesso dimentica. Al ricordo della sua esperienza vissuta nel campo di concentramento nazista di Natzweiler-Struthof è dedicato «Necropoli», un capolavoro del Novecento, che in Italia è stato scoperto con colpevole ritardo, tradotto da Fazi nel 2008, quarantun anni dopo la sua pubblicazione.
grazie, molto interessante!
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